Toccati dalla vita – Arti Decorative per esercizi di scrittura
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DOI: 10.7431/RIV25112022
Ho udito il picchio giù nel Rio, ha gridi
con remoti spaventi, scorie stellari.
Pier Luigi Bacchini, da “Forme”, 1999
1. Nel tramaglio. Verso un “tessuto comune”
L’intelligenza e la verve creativa appartennero di diritto a Francesco Algarotti, homo europaeus, il quale, contrariamente ai mediatici saccenti dell’oggi, fu qualitativamente, oltre che quantitativamente, esperto di pittura (Lettere sulla pittura), scultura, architettura, fisica, opera lirica 1. Intellettuale pungente, è nel noto pastello su pergamena del ginevrino Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti (1745), che possiamo ben cogliere l’intensità del suo sguardo pronto a diradare la vermicolare bruma della superficie pittorica; una pupilla animata da quella felice e progressista curiositas che concresce e si agglutina nell’habitat cosmopolita dei saperi (Fig. 1). L’Algarotti (Venezia 1712-Pisa 1764), polemico contro la vanità delle Accademie del XVIII sec. da lui ironicamente definite “Sinopsi della Nereidologia”, fu amico di Voltaire, del quale è nota la presenza di un suo laudativo sonetto indirizzato al giovane Francesco (anche se la sagace penna del filosofo parigino non lo priverà di critiche pungenti), in cui si dichiara come questo figlio della città Venezia fosse stato creato, con essa, a onore degli dèi: «On a vanté murs bâtis sur l’onde, | Et votre ouvrage est plus durable qu’eux. | Venise et lui semblent faits pour les dieux; | Mais le dernier sera plus cher au monde». Egli è, per altro, l’amico di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, il più lucido divulgatore delle idee newtoniane in Francia, – l’anticipatore, in biologia sperimentale, degli aspetti legati all’embriogenesi, alla fertilità, all’epigenetica, oltre che matematico e studioso di filosofia morale, – testimoniando con tale sodalità la sua profonda convinzione del modo in cui l’esercizio sperimentale stia a fondamento della filosofia naturale. Ammantato di plastico illuminismo letterario, va quindi considerato, con sicurezza, primo divulgatore italiano delle scienze fisiche (non meno delle arti) avendo avuto maestri di esemplare lignaggio: da Eustachio Zanotti, storico dell’arte e professore di meccanica, tra i fondatori, nel 1782, – assieme al patrocinatore Antonio Maria Lorgna, matematico e ingegnere idraulico, – dell’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, al chimico, scopritore del glutine, Jacopo Bartolomeo Beccari, all’anatomista e fisiologo Leopoldo Marco Antonio Caldani. Egli è, dunque, l’incondizionato seguace di Isaac Newton: l’autore dei Philosophiae naturalis principia matematica (1687), un classico di sostegno per qualunque teoria fisico-matematica, il quale con le sue fondamentali ricerche determina la nascita dell’ottica moderna, del calcolo infinitesimale, della meccanica, della cosmologia. Sarà Newton a mettere in armoniosa relazione, grazie alla legge della gravitazione universale, la sfera terrestre con quella celeste. Algarotti coglie, con scintillante lucidità, i termini elevati, del grande magistero riuscendo persino, poco più che ventenne, con sintesi e scientifica oculatezza, a spiegare tutto ciò nel suo Il Newtonianismo per le dame ovvero Dialoghi sopra la luce e i colori (1737) senza abdicare alla sua caratterizzante grazia espositiva, pur dovendo accusare, nel prosieguo dei Dialoghi sopra l’ottica newtoniana, quei limiti messi in evidenza da Voltaire il quale con icasticità e crudezza sancisce – riferendosi ai suoi Éléments de la philosophie de Newton mis à la portée de tout le monde, – “Credo che vi sia più verità in dieci pagine dei miei Elementi che in tutto il suo libro 2”. Algarotti è stato l’intellettuale che, dopo aver confutato Cartesio e Malebranche intorno alla natura della luce e dei colori, fu inoltre quieto ‘divulgatore’ delle teorie lodoliane, tanto da aprire il suo Saggio sopra l’architettura (1757), dedicato all’aforista Bernard le Bovier de Fontenelle, con le note parole del francescano e teorico dell’architettura Carlo Lodoli (suo primo maestro di greco, anticipatore del funzionalismo): «niuna cosa metter si dee in rappresentazione, che non sia anche veramente in funzione» (Fig. 2). Una poetica, quella di Lodoli, che ebbe, dopo Algarotti, – attento più all’aspetto imitativo delle sue scienze architettoniche spiegate con un’accondiscendente visione personale, – un valido sostenitore nel poligrafo e teorico del neoclassicismo Francesco Milizia. L’illuminismo lodoliano, avverso al barocco e al rococò, intollerante all’innesto di elementi decorativi, non potrà comunque sbarrare in futuro l’integrazione al quadro funzionalista con simbionti riconoscibili anche nei valori decorativi. Le arti applicate in ogni caso si porranno a conquistare e superare, sempre nel confronto con “ragionevolezza” ed “eleganza non capricciosa” (parole, queste, dell’allievo Andrea Memmo trasmesse dai suoi Elementi dell’architettura lodoliana del 1757), purché non turbino il teleologismo del progetto architettonico. Si giungerà così, nel tempo avanzato della modernità, a impadronirsi di quegli attributi d’espressione capaci di ampliare il significato strutturale del progetto creativo, proprio con il valorizzare materiali i quali inducano al dialogo con i ‘sensi’. Una sollecitazione giungerà da Bernard Berenson in quel pervicace redigere il suo registro storico-critico: dal ridimensionamento dei volatili motivi illustrativi alla necessità, invece, di cogliere, nei materiali aggiuntivi i suscitatori di quei “valori tattili” che, con certezza, corroborano la capacità di magnificare percezione e interezza di un’opera 3. Se Tommaseo – nella decisa affermazione di Pietro Paolo Trompeo – vedeva nel conte Algarotti colui il quale sfarfallava «dal sermone oraziano alla fisica newtoniana, dal melodramma alla strategia, dalla critica d’arte alle disquisizioni economiche, dall’italiano al greco e dal latino al francese 4», è bene segnalare come il polymathēs veneziano, lo ‘scrittore più rappresentativo del Settecento italiano’ – lettore empatico dello smalto del suo tempo: da comptulus (cioè ‘civettuolo’, nell’uso trompeiano atto a decifrarne l’habitus caratteriale), – sia stato un precursore delle moderne istanze, mostrando già la cultura come un tramaglio, un consistente tessuto comune.
È un dialogo, questo, mosso tra fenotipo dell’opera e sua materialità, tra elan creativo e quell’applicabilità che arricchisce e potenzia varî e pur diversi momenti espressivi: dall’interazione con la scrittura, – la quale si nutre dell’apporto decorativo per dilatare il proprio sensorio e per amplificare forze metaforiche e spazi semantici partendo dall’originaria sinergia ribollente nel fervido catino dei prodotti delle arti visuali, – dall’architettura alla scultura, dalla pittura al design, e certo, non ultimo, all’ampio parterre della produzione artigianale.
Per altro non è esente da tale meticciato estetico (lo testimoniano gli esiti probanti), anche il distillato poetico, il quale rispecchia in profondità l’azione modellatrice della mano, ne amplifica la reiterazione degli ambienti, delle architetture urbane, degli utensili, dei manufatti in genere, rivelando – nella fattualità – il crossing con nuove emergenze estetiche, cosicché quel lavorìo che ritrova nella fisiologia il suo motore, espanda inaspettate e salutari urgenze creative. D’altronde è impossibile non cogliere come le diverse materie inerenti alle arti decorative, proprio per il loro desiderio di pigmentare l’essenzialità, tocchino ogni registro visivo delle arti, e come, in modo appropriato, la loro partecipazione giochi un ruolo non indifferente al dilatarsi in orizzontale del significante e, con deleuziano effetto rizomatico, sollecitare la scrittura e accelerarne quelle qualità poetiche in cui stanno incistati sensori suscettibili all’estetica del manufatto, affinché possano meglio agire come avviatori di pensiero. In tal modo può essere rilevato come da ogni ‘parola’ e ‘azione’, ingenitamente covate nell’intimità di ogni dispositivo intellettuale, si possa trarre un accrescimento dei saperi, un beneficio di utilità: una poetica prossima a quell’antica romana utilitas coniugata al decor (o alla voluptas oraziana del «qui miscuit utile dulci» 5); un’efficacia, di certo, non disgiunta dall’energia propulsiva della bellezza.
2.Toccati dalla vita: Coralli, tarsie, chiese per anime adeguate
La materia corallina, popolazione d’invertebrati marini, ha un nome colmo di un’incancellabile primitiva leggiadria: antozoi; tale pulsione vitalistica si sprigiona in migliaia di specie che vivono esistenze solitarie o aggregate in splendide costruzioni coloniali. Queste fitomorfe creature (il cui etimo figurato si accosta, non a caso, a ‘fregio’, a ‘ornamento’) si attestano nei manufatti, in quel loro miracoloso essere scatole biologiche portatrici di un esoscheletro di calcite dalla raffinata simmetria romboedrica quasi a simulare un vitreo insieme di petali, e, sopra ogni cosa, per raccontare liberamente la commossa esperienza d’essere stati toccati dalla vita. Ci avvaliamo dell’autorità di Adelchi Baratono, per ripetere come l’«Esistere» significhi «proprio e soltanto essere o poter essere sensibile 6». Un esistere che è (autorevole conferma la riceviamo dall’estetologo Dino Formaggio, suo discepolo) un accertare non trascendente, ma esistenziale della spiritualità. Le ‘cose’, per Baratono, sono, inequivocabilmente, “esse stesse esistenza”.
Se c’è uno scrittore, un critico che, più di tanti altri, ha percepito tale sollecitazione dalle ‘cose’: dalla caparbia abilità delle mani, dal loro trasmettere qualità aggiuntive, morali, estetiche all’applicabilità delle arti, al loro esaltare il cursus spirituale dell’opera, certo il rondista Emilio Cecchi (Fig. 3), il vociano e il critico della “Tribuna” (firma riconoscibile anche con lo pseudonimo Il Tarlo), depone, di fatto, la sua estesa produzione su tale podio. Il saggista offre il suo lavoro analitico e creativo non come un comune supporto su cui si stratificano, in una sorta di automatismo, i saperi, piuttosto quale albero esteso alla narrazione critica, capace di accogliere i molteplici umori delle informazioni provenienti dall’esterno. Sono tali umori a impollinare il continuo fluire che lambisce ora le sponde della filosofia ora quelle della poesia in un ambiente fervido di stimoli (Fig. 4), – corroborato anche dai rapporti epistolari con l’agudeza critica del sensibile Mario Praz, l’indimenticato autore di La casa della vita (1958), – tra un sensismo capace di ospitare le pur minime tracce percettive rilasciate dalle cose plasmate, toccate dalla sapienza delle mani, intiepidite dallo sguardo acceso su opere e oggetti. Nella sua raccolta di saggi, Corse al trotto e altre cose del 1952, anno in cui riceve il premio Feltrinelli per la letteratura saggistica dall’Accademia dei Lincei, molta della sua scrittura è dedicata alla pittura, alle arti applicate 7, e, non a caso, Natalino Sapegno, nel denso risvolto di copertina, chiarisce: «il vero maestro della prosa d’arte contemporanea, lo scrittore che ne incarna in maniera esemplare e quasi simbolica i caratteri d’estrema attenzione e consapevolezza, è il fiorentino Cecchi»; aggiunge, poi, che «il suo passaggio dalla critica alla letteratura in senso stretto, è stato lento ed insieme spontaneo, attuandosi nella forma del “saggio”: rappresentazione e interpretazione insieme di un dato umano o naturale; frutto estremo e al tempo stesso liberazione in senso scherzoso d’una somma di esperienze culturali ormai consumate e ridotte a pretesto ed avvio di invenzioni capricciose imprevedibili, e di peregrini sondaggi della fantasia 8». Dunque, una felice inosservanza dei generi che consente a Cecchi, nel saggio Corallai, di ricordare:
[…] Mi mostravano corallo siciliano, più esile e pallido; e corallo sardo, di pésca meno facile ed abbondante, ma assai robusto e di calde colorazioni. E scorgevo, lì accanto, esemplari più massicci e capricciosi, la cui tinta va da un bianco di neve al roseo vinato e addirittura al violetto. Contorti, barbuti, con qualcosa di stregato e chimerico, ricordavano nella forma i ginepri e pinastri che si veggono nei paesaggi delle stampe giapponesi. Erano infatti rami e cespugli di corallo del Giappone; a parer mio meno bello, soprattutto più agro di colore, ma da alcuni decennî importato come materia prima, con l’effetto di distogliere i marinai torresi dalla pésca nei fondi di Sciacca e sui banchi sardi.
Vero è che il corallo siculo, in parte, è corallo «morto»; o perché fu tocco da esaltazioni vulcaniche, o perché strappato dalle correnti e deposto a strati profondi tra la fanghiglia marina. Gli strati più antichi, sottostanti, son nericci, imporrati, e di sempre minor pregio. D’altro canto, gli ottimi banchi di Sardegna furono sfruttati fino all’esaurimento; e una ripresa di pésca rimunerativa non potrebbe essere preparata che con nuove esplorazioni 9.
Descrivendo, nella sede di un vecchio convento di carmelitani, la scuola del corallo di Torre del Greco (disegno, plastica, cultura generale) Cecchi – oltre all’attenzione antropologica riversata in un ampio riflesso sociale (egli, per altro, sensibile al corpo, non manca d’interrogarsi su tale meravigliosa e imperscrutabile macchineria, letto anche nella qualità d’intimo segnalatore della malattia), – mostra la resa letteraria e la poetica irradiazione proprio in quel «cadere d’una rossa goccia» sulla palpitante armonia dei manufatti corallini:
[…] Ma la lavorazione del corallo è soprattutto una lavorazione anonima, casalinga. Nell’opificio si sceglie, suddivide e distribuisce la materia prima. Le stridule seghe circolari sezionano le conchiglie, tagliano i ramoscelli. Piccoli operai, donnette, si portano a casa il loro quantitativo, e lo foggiano nelle forme volute, a forza di lima, trapano e smeriglio. I chicchi di sfericità matematica, gli àcini di più affilata sfaccettatura, sono il prodotto di questo prezioso lavorìo manuale, che fa pensare a quello dei merletti e ricami; e fa anche pensare alle divozioni e alle preghiere: a un rosario di milioni e miliardi di chicchi, che passano e ripassano fra le dita industri, pazienti, e segnano ciascuno un pensiero, un ricordo, il cadere d’un attimo vivo; come il cadere d’una rossa goccia nel circolo del sangue e del tempo 10.
Su tale incessante fermento s’innesta lo stupore dello scrittore per il segreto che si materializza nei prodotti del mare da lui definito «poesia del mistero marino»; non altro che è un ‘fare’ allacciato all’umana poetica della pazienza, amalgamata «di silenziosa assiduità, di tempo». Proprio nella geometria delle forme, nell’esito della loro morfologia finale, egli vi scorge, palpabile, «un fremito umano; la vita le ha toccate una volta, e sembra aver lasciato loro per sempre qualcosa del suo tepore 11». Per tali tepori, per la capacità di registrare le emergenze termiche dalle cose che di vita sono impregnate, Cecchi amplia il diorama della sua scrittura; a tal punto nel capitolo Nero e bianco, relativo alle visite delle chiese barocche (Padova, in particolare, è presente con il tempio del Santo), appaiono, al paragrafo IX, le vibranti pagine sulle Tarsie in cui:
[…] nella sommessa armonia dell’avorio, del bossolo, del noce, quegli intarsi erano davvero stupendi. I motivi raffigurati avevano una gentilezza di racconti popolari. Una nave a vele spiegate aspettava il vento in mezzo all’onde. Carico di grappoli e viticci, un tralcio pendeva da una canna. Sopra un davanzale era posata una camelia, presso alla gabbia con un uccellino. E qui vedevi un astrolabio, fra certi libri e una lucernetta accesa. E, accanto, lo sconfinato scacchiere di una piazza, con in fondo una chiesa piccina piccina. Questa varietà di figure si ricomponeva in unità, grazie soprattutto alla intonazione dei colori. E le due ali del coro facevano pensare, così screziate e raccolte, alle ali di una farfalla marrone 12.
Ma quale fascinazione esercitano in Cecchi questi intarsi, oltre alla dichiarata ‘ingenua’ forza creativa, alla ‘tinta’, al ‘disegno’? Sono di certo le emozioni umane che su di essi si riversano, la capacità d’intridere di accesa empatia i materiali, gli ambienti, la collocazione stessa su cui giostrano elementi svariati, ma tutti attratti da un comune denominatore: la devozione, quel senso spontaneo della fede elaborato in un momento storico in cui lo scrittore intuisce il diradarsi della sensibilità rivolta ai luoghi, alla stessa cultura morale che vi aleggia. Le sue parole appaiono chiare, versate, con insistenza, in un indefettibile spazio poetico nel quale va ricordato come:
[…] per parecchie centinaia di anni, alcuni uomini, votati a certi princìpi, s’erano ritrovati, a ore determinate del giorno e della notte, fra quelle mura e su quei banchi; e occupati nelle stesse pratiche rituali, avevano spesa insieme gran parte della loro esistenza; ed avevano saturata l’atmosfera come di una presenza misteriosa ed incancellabile, nello stesso tempo che, a forza di gomiti e ginocchia, e dando di schiena sulle spalliere, mentre cantavano i salmi, avevano fornito, agli intarsi il più bel lustro e la più bella pulitura; li avevano impregnati d’una vernice, dirò così, fatta di grassi, essudati ed altri umori vitali; vernice del tempo, come quella degli stradivari più eletti 13.
Cos’è, dunque, la chiesa per Cecchi? Essa è «la galleria, la biblioteca, la sala da musica, il salotto spirituale dei poveri. E, insieme a tutte queste cose importanti, è qualcosa più importante di tutte queste cose. È l’unico posto dove miracolosamente è risanata ogni ferita all’umana dignità, e dove il meschino è uguale al potente 14». Tali spazi, che attingono e riversano dalla memoria alla coscienza la materia d’una poesia diremmo naturale, sollecitano lenimento per quelle malinconie esistenziali che Tomasi di Lampedusa, – ritratto anche da Bruno Caruso nel suo esperimento d’immersione nell’arte popolare espressa con la decorazione del carretto siciliano che tanto affascinò la formazione del bagherese Renato Guttuso, (Fig. 5) – chiama «sensazioni penose» e per le quali, nell’ultimo capitolo del suo Gattopardo, vi spalma l’amarezza in quel guardare quasi ad occhi chiusi rilevando che «ad una certa età ogni giorno presenta puntuale la propria pena 15». Una pena e anche una riflessione estetica orientate, forse per trascinamento, alla contemplazione di modelli decorativi confusamente stratificati su derelitti cumuli di vecchie foto, giocattoli, biancheria ammuffita in una “umidità palermitana” più spirituale che atmosferica, cartoline e acquerelli di abitazioni smarrite nel tempo, e poi, preziosi monetari, agile mobilio nella gaiezza di stile maggiolino «con figure di cacciatori, di cani, di selvaggina che si affaccendavano ambrate sul fondo di palissandro 16». Il luogo, gli oggetti appaiono, allora, ‘esistenza’: incubatori di irrevocabili segmenti di vita al fine di trasmetterli, in un reciproco contagio, ad altri osservatori, altri lettori, e nel modo in cui Tomasi, scrivendo di un dipinto nel cerchio estetico dello scapigliato Tranquillo Cremona, dice di reliquie e di cornici:
[…] Poi si volse alle reliquie: settantaquattro ve ne erano, e coprivano fitte le due pareti di fianco all’altare. Ciascuna era chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l’indicazione di che cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentazione di autenticità. I documenti stessi, spesso voluminosi e gravati da sigilli, erano chiusi in una cassa ricoperta di damasco che stava in un angolo della cappella. Vi erano cornici di argento scolpito e di argento liscio, cornici di rame e corallo, cornici di tartaruga; ve ne erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto azzurro; grandi, minuscole, ottagonali, quadrate, tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e cornici comperate ai magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote, ed esaltate dal loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori 17.
Oggetti della devozione in cui ogni assetto decorativo, dalle umili a fastose cornici connotate, dall’assunto di Georg Simmel, per la “distanza” dall’esterno, e dalla “unità” per la loro “appartenenza ad una sfera staccata da tutta la vita 18”; il luogo partecipato, dunque, da inquietante a gioioso o malinconicamente assorbito, si dispone a svelare proprio quelle “anime devote” che sono in sé declinazione di manufatti, di cultura religiosa, di storie famigliari: aneliti dispersi come nubecole in volti apparsi e poi dissolti, il tutto in un ambiente che, in quanto vissuto, tracimerà la propria consistenza al sensorio. Una fenomenologia delle atmosfere, procurata da «risonanze proprio-corporee suscitate in noi dagli spazi (vissuti) in cui ci troviamo e, come tali, decisive per la qualità della nostra intera esistenza»: è quanto ribadisce Antonino Griffero, considerando che proprio le “atmosfere” «nella loro forma prototipica, vanno intese, infatti, come sentimenti non interni al soggetto ma effusi nello spazio esterno e pericorporeo 19», con il loro alimentare, nostalgie, consapevolezze, aperture semantiche, arricchimenti creativi o, al contrario, con la mediazione di invadenti domini visionari, – come avviene in Libero Altomare, (futurista della prima generazione) – in forma di incubi claustrofobici affrontati spesso – osserva Glauco Viazzi – con una morfologia del discorso indicativamente deittica, mentre, nell’attesa di una redenzione modernista, ogni elemento si sfalda: «E la casa» appare «tutta invasa | di penombre e lampi gialli. | Alle sue vene di piombo | giunge il rombo | della vita cittadina; | ma in sordina… 20».
Un’effusione pericorporea riscontrabile (con chiarezza tracciata e quasi necessaria all’esistenza stessa dello scrittore), nella quotidianità di Tomasi; essa si coglie da quelle pagine dei Racconti in cui assume particolare valore emozionale la «bacheca Luigi XVI in legno bianco, che racchiudeva tre statuine in avorio, la Sacra Famiglia, su fondo cremisi», oggetto che segue lo scrittore, dalla casa del Belice al capezzale del letto di Villa Calanovella dei Piccolo nella solare Capo d’Orlando: una «traccia affievolita, certo, ma insormontabile della mia fanciullezza 21», scrive, e in cui si mostra un continuo bisogno di rammemorativi appagamenti estetici attraverso un’aspirazione alla poesia che affiora ovunque col suo – avverte Giorgio Bassani – «primordiale dono d’illusione, di verità e di musica 22».
Le “anime devote” di Tomasi sono le medesime esposte dal cugino, il poeta Lucio Piccolo (Fig. 6), in quella lettera di presentazione a Montale 23 (forse parole suggerite e annotate dallo stesso Tomasi) dei suoi Canti barocchi; si dice, infatti, «di anime adeguate a questi luoghi», dove il luogo sollecita «una interiore, insistente esigenza di espressione lirica», una adeguatezza proporzionata e sostanziale all’ambiente, alle architetture, all’irruenza della decorazione barocca; ciò è quanto viene espresso dalla poesia Oratorio di Valverde 24, in cui si trasferisce l’interezza del visibile e del percepibile verso un cammino di pensiero, di conoscenza. In “Oratorio” le stazioni decorative, in stucchi, in marmi, in legni, in colonne tortili, in decorazioni marmoree, che ornano questo tempio dalla prepotente impronta secentesca, ma che vide il primo impianto nel Trecento, accumulano nell’oggi le trasformazioni temporali, i rimaneggiamenti a seguito d’interruzioni operative, di danneggiamenti bellici, di variabili estetiche nelle quali il XVII secolo ha impresso, perentoriamente, il proprio calco definitivo consegnandoci un monumento barocco in cui si celebra la manuale prestanza e l’ingegno architettonico di un manierista d’eccezione, Tommaso Smiriglio, e con tarsie di forte pregnanza espressiva firmate da Andrea Palma e Paolo Amato. Piccolo avverte, preponderante, lo straripare delle materie e delle raffigurazioni d’ornamento tradotte e vissute dal poeta palermitano quale irrinunciabile sostanza pulsante. Ecco, di conseguenza, il «tremore di conchiglie», il bagliore «di luci marine», le sensazioni, al tocco delle campane, che irradiano «fili di memoria, dai risvegli infantili». Si staglia sulle rètine un’opulenza botanica: e «sono albicocche in festoni, | pesche, ciliegie, viticci attorti, | orgoglio fragrante degli orti». Lo stesso scorrere delle stagioni volteggia dal biancospino primaverile all’estivo «seme di fuoco», e, tra gli autunnali e invernali transiti, ecco emergere il miscelarsi dei venti sull’infierire delle note d’organo e, sull’altare, il vorticare di «globi di gocciole gelate tra ginepri 25». Appare evidente come la “musica verbale” (ci affidiamo alle parole usate da Montale per Lucio Piccolo 26), in tale registro sia consistente; essa sollecita i sensi, e in tal effusione li perfonde, non si disgiunge dal senso letterale tanto che è consegnato integro alla tattilità (quasi a ricongiungersi alle parole di Cecchi), a quegli uomini i quali tra quei banchi «avevano spesa insieme gran parte della loro esistenza; ed avevano saturata l’atmosfera come di una presenza misteriosa ed incancellabile 27». Scendendo nel cuore dei centoquattro versi dell’“Oratorio”: parole, senso, musica, umori terrestri e celesti, vengono a concretarsi nelle “anime adeguate”; sono esse a vorticare nello spazio di un’architettura a sostegno del trionfo dei simboli decorativi, in una disseminazione corpuscolare dove la decorazione, i materiali che, di là della loro precipua connotazione figurale, consentono e realizzano l’ampio fiato sinestesico in cui anche il motore dei berensoniani “valori tattili” appare coeso all’esistenza del ‘luogo’, delle sue ‘cose’, delle anime che lo hanno e lo abitano. Ecco, allora:
Fra le volute, fra gli archi che vincono gli estri
più snelli delle tastiere, pavoni, uccelli del paradiso, fagiani
bevono in conche cilestri,
la fuggitiva dell’Arca porta l’oliva
fra i melograni.
Su le mensole accanto ai messali gravati
di cuojo gli antifonarî (hanno stuoli
di rondini su occasi affocati):
schiuderanno i voli alle tortore del canto
negli albi cieli pasquali;
non muove l’Anno su cardini di firmamento
né per vie di pianeti
ma lo volge dolce e lento
cerchio di melodie 28.
Le ‘cose’ si oppongono, in relazione alla consistenza strutturale, molecolare, per ‘durezza’ e ‘morbidezza’: l’esser solidi o cedevoli conferisce loro non soltanto l’identità chimico-fisica, bensì il potere di variare il senso stesso della tattilità sia diretta (attraverso le mani) sia indiretta (lo sguardo che si posa). Come non meravigliarsi del fascino della durezza quando Cecchi, guarda in Firenze quel lavoro d’arte mosso da “istinto e passione”? Infatti lo esaspera fino a farlo diventare ‘eccessivo’ e ‘spietato’; egli sente «attraverso la durezza della materia e il suo congegnamento matematico» l’esito di una forza nuova, «una sorta d’invulnerabilità e d’immortalità alle immagini o ai simboli di una raffigurazione». Ritiene che proprio in tale tenacia operativa, volta al rafforzamento estetico ed eternante di una particolare idea di glittica, essa si trasfonda in quella «trascendente bellezza dei monumenti funerari» col determinare il loro apogeo. Di certo non è un caso, osserva, nel capitoletto Pietre dure «che nel chiostro di Santa Croce dovesse avere la sua tomba un pietrificatore, e il più famoso: Girolamo Segato»; un monumento funebre in cui appare la geniale eleganza, per ‘trascendente bellezza’, del purista Lorenzo Bartolini il quale incornicia la misteriosofica cultura di questo bizzarro egittologo, abile mummificatore, soprattutto ricordato per le sue ricerche di ‘pietrificazione’: una mineralizzazione delle componenti organiche, tissutali, al fine di consegnar loro ‘solidità lapidea’ 29. Un processo che è rimasto coperto da segretezza, definitivamente oscurato con la morte di Segato, anche se altri tentarono la via di questa ‘solidificazione’, come il caso del chimico e farmacista bellunese Bartolomeo Zanon, un Socio dell’Imperiale Regia Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Padova (1838). Se non fu certo un diretto lavoratore d’arte della pietra, Segato consegna l’idea di una litica aderente alla conservazione della corporeità, in varie posture morfologiche, quasi una preconizzazione all’attuale lavoro anatomo-artistico di Gunther von Hagens 30 che rientra negli schemi estetici e pedagogici nell’uso delle materie, in una trasversalità che oscilla dall’organico all’inorganico. E allora, nel retaggio delle applicazioni, Cecchi rinnova la sua visione critico-percettiva:
[…] Quando, nel sedicesimo secolo, il gusto della pittura non trova più da sostanziarsi in pittura, il suo retaggio scende alle arti minori; come nel barocchismo levigato e fiammante di quell’arte delle pietre dure che, da Francesco I a Ferdinando I per almeno trecent’anni, rese famoso il mosaico fiorentino in tutto il mondo.
Vedendo i ragli panneggi dell’Eleonora da Toledo ed altri ritratti bronzineschi, con quelle taglienti inquadrature e rabescature cremisi e azzurre, sempre mi avviene di pensare alle decorazioni delle tavole e trionfi di pietre rare a Pitti e agli Uffizi. O agli intarsi di calcedonio, di onice e marmi preziosi che nella cappelletta dell’Annunziata c’incantavano da fanciulli; come se nelle loro translucide geometrie, nei loro fulgori minerali, fosse inscritto qualche significato esoterico, splendidamente allucinante 31.
Alla durezza può compararsi la fragilità d’altri materiali; le materie tessili, ad esempio, sono disponibili sia sul versante concettuale del lavoro creativo sia nell’impegno artigianale oscillante tra forme alte di esiti (arazzi) o in forme più sobrie (il ricamo) prodotte da una società familiare ormai agonizzante. Non è insolito trovare metafore tessili in poesia: e il critico e poeta Giuseppe Zagarrio (Ravanusa 1921-Firenze 1994) ci consegna, col suo testo poematico, Le ricamatrici della Kalsa, un interessante banco di prova della scrittura poetica nel ricordare il «quartiere palermitano della Kalsa [che] da sempre è stato il regno delle ‘ricamatrici’, tutte curve e intente sui loro lavori di tovagliati o arazzi istoriati. Qui s’immagina che ne ricavino brani, scene, immagini di storia siciliana 32». Zagarrio, fondatore, nel 1958, con Gino Gerola, Lamberto Pignotti (teorico, con Eugenio Miccini, della poesia visiva e aderente al ‘Gruppo 63’) e Sergio Salvi, della rivista di poesia “Quartiere”, pone l’accento come Le ricamatrici siano «un testo/prova che conferma e penso giustifichi quel mio tipo di ricerca etico/strutturale che tendeva già dai primi tre libri […] a portare l’elegia diciamo la ‘classico/arcadica’ dei siciliani a una più grintosa tensione sentimentale-intellettuale attraverso il ricorso a quella che la ricerca junghiana direbbe la ‘memoria collettiva’», ciò inserito tra quelle sperimentazioni postbelliche di ‘lirica poematica’, e che, in parallelo, andava sviluppando, anche Pier Paolo Pasolini. Sul profilo delle ricamatrici si stende «la tetra offesa dell’ombra» che chiude al crepuscolo ogni luce nell’antico e umido quartiere islamico con l’architettura della ‘eletta’, dove – richiamando le parole dell’arabista abate Salvatore Morso – «sembra doversi collocare il palazzo della residenza de’ principi musulmani, e gli edifizj dei suoi familiari, riferiti dal Geografo Nubiese come situati nell’antica città di Chalesa, dov’era l’ingresso del mare 33». Offre, ancor oggi, alla miserevole presenza di un acceso sottoproletariato, il suo mantello di monumentali magnificenze (dalla Magione a Santa Maria dello Spasimo; dalla Gancia a Palazzo Abatellis a San Francesco d’Assisi; da Palazzo Ajutamicristo allo Steri alla fontana del Garraffo) quindi: dal romanico, agli stucchi serpottiani, dal gotico ai marmi cinquecenteschi, in un intreccio di sostanze rinascimentali e bizantine. Non è un caso che il poeta scorga e taglia i versi nel momento di riposo quando, al calare delle acque prossime al quartiere, tra gli aromi dell’Orto botanico, «il vento li colora di spola in spola» e prendono vita le storie mirabili della Sicilia tra i versi degli “aghi e l’arazzo”:
Il tempo ci suggella gli arabeschi
sulla candida tela, che un respiro
di luce accende se la tetra offesa
dell’ombra, da un’ogiva s’apre e gèrmina
il prisma d’aria dal cielo alla pietra.
È questa l’ora delle quiete nascite
o delle soste, quando sulla riva
degli èsiti ogni flutto s’abbandona
senza clamori. Scorrono sugli aghi
allora i segni. E il vento li colora
di spola in spola con l’arioso fiato
delle schiarite, quando l’erba svela
la forza del resistere, e dilaga
sul ciglio asciutto il pianto dell’attesa 34.
Poi una fusione tra glittica e tessitura, come in Corrado Govoni, può intridere con gaia prestanza i fili setosi di moerri, di lampassi, mentre il verde del crisopazio, mite e fruttato attenua, nella sua natura di calcedonio, un abito femminile. Su di esso rilucono: la verde intensità degli smeraldi, il sangue passionale dei rubini confusi all’argentea tramatura del lampasso. Ecco come, in Crisoprassi d’amore, affiori, l’opulenza della decorazione, il corpo dell’amata e il poeta a lei volgendosi dichiara: «La veste che tu indossi l’ho tessuta | di smeraldi rubini e puro argento, | su fili di moerri e di lampassi; || e l’immagine tua riflettuta | ne l’oro de l’eletto pavimento | l’ho incrostata di mille crisoprassi 35».
3. Relazioni formali. argille, figulini, poesia concreta, pietre e cuoi
Ricordava George Kubler in The Shape of Time 36 come si sia molto sacrificato all’opera d’arte quando s’è accettato, in modo totalizzante, quel plurimo destino ad essa attribuito dalla “Filosofia delle Forme simboliche” del filosofo Ernst Cassirer (Philosophie der symbolischen Formen, Berlin 1923-29), per cui, sotto l’influsso del neokantismo di Hermann Cohen, le configurazioni simboliche di mito e linguaggio, di religione, scienza e arte, scuotono l’intimo umano stimolando la capacità delle funzioni mentali a regolare l’architettura culturale dell’uomo favorendo, così, la comprensione di se stesso e sostanziare di significati la realtà. Kubler rammenta, nell’incipit del suo noto saggio (che ebbe il privilegio d’una gestazione e stesura a Napoli), come tale dominio abbia consentito di allacciare ed espandere la produzione artistica, in ogni sua forma, ad ogni possibile piega costitutiva dell’intero albero musivo caratterizzante la storia. Però tale definizione e tal evoluzionistico collegamento, ci priva, – avverte il profondo studioso dell’arte amerindia, – del vasto e fondamentale «sistema di relazioni formali». Nel suo primo capitolo, “La storia delle cose”, chiarisce, sin dalle prime righe, il valore di una possibile inversione di tendenza: «Supponiamo», scrive, «che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture. Accettare questa premessa significa semplicemente far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose» 37. Con il reiterare ‘oggetti’, o con lo stratificare materie, si vengono di certo a determinare continuità e rafforzamento nell’esistenza del manufatto o dell’oggetto d’arte che da esso può trarre origine; allora si comprendono ancor più le parole di Kubler quando egli ribadisce come «la replicazione sia simile alla forza di coesione. Ogni cosa ha proprietà adesive, in quanto mantiene uniti il presente e il passato.» Ecco che geografia, geologia, etnologia rispecchiano tali urgenze primarie, ingenite nel gesto, nelle mani pronte a raccogliere, a trasdurre pensieri e desideri, a denudare dall’utilità del mezzo la sua naturale poeticità.
A tale forza di coesione ci hanno guidato i cretaioli-argillieri, i piattari, i vasai, attingendo da un filo comune che li collega all’orizzonte Neolitico, a quella fase distante da noi oltre settemila anni e in cui si registrano: la qualificazione della litotecnica (levigazione della pietra), i mutamenti sociali in cui la sedentarietà consente lo sviluppo urbano con la costruzione dei villaggi (come sottolinea Gianfranco Lionetti per i villaggi trincerati del materano studiati dal medico e archeologo Domenico Ridola) 38, la nascita della civiltà agropastorale, la filatura e la tessitura, gli impasti di argilla e la cottura dei manufatti fittili e lo sviluppo della produzione ceramica. C’è un’immagine a dir poco toccante nel Vasaio 39 di Vietri descritto da Cecchi in cui il gioco delle mani costituisce, non soltanto un’abilità, ma un marchio di un’intera civiltà raffrontabile e strettamente confuso all’uso dei gesti, delle parole che accompagnano mente e corpo, all’impiego ponderale della scrittura. Un’armonia, insomma, che cova all’interno dell’ordine intimo del popolo mediterraneo; quell’«intuito ritmico e mimico», richiamato da Emilio Cecchi, che si mostra ineludibile specchio di tanta ebbrezza fittile, la quale trova il suo fuoco prosodico nella dimensione greca:
[…] Non intendo affatto di cimentarmi a descrivere come il vasaio manovrasse la sua ruota: la stessa che da tremila anni aveva servito ai figuli di Cnosso, di Corinto, della Magna Grecia e d’Asia Minore . E come quando egli strappava e poneva in opera un pezzo di creta, da ricavarne un orciuolo o una coppa, cotesto pugno di creta fosse infallibilmente calcolato, e non ne avanzasse e non ne mancasse mai un’oncia. Io badavo compuntamente a ripetermi: Così in tanti anni tu avessi imparato a conoscer di colpo quello che devi mettere e quello che devi tralasciare quando scrivi un articolo, vecchio bestione.
È osservazione comunissima che i popoli del nostro Mezzogiorno sono dotati del più squisito intuito ritmico e mimico. E forse, anche meglio che a parole, possono esprimere un’ ombra dell’emozione, un’impalpabile sfumatura del sentimento, con l’atteggiarsi del viso o il labile sfioccarsi delle dita. Parlano, a dir così, in aeree sculture, in musiche gesticolanti e subito scancellate. Nel povero Gemito, che intravidi appena una volta, vecchissimo e più morto che vivo, cotesta virtù pareva stregoneria. E mi narrarono del magico giuocar delle mani, dell’inesauribile, mimico incantesimo, nella conversazione di Domenico Morelli.
Così il nostro vasaio. Senza fretta e senza tregua faceva andare il pedale; e bagnando la sinistra nel secchio dell’acqua, aspergeva il pane d’argilla sulla ruota. In disparte, guardandolo, sentii a un certo momento un freddolino giù pel groppone. Era come a volte che, ascoltando un grande pianista o violinista, ci viene una specie di brivido. E non tanto dipende dalla qualità e dai significati di quella data musica chi sa come spesso sentita e risentita; ma dalla materiale, fisiologica felicità con la quale cotesta musica ora si realizza nel nostro organismo, toccandoci nel sangue più profondo 40.
Il movimento della mano, sottolinea Cecchi, “tuffata dentro la creta” fino a perdersi, a volte, immersa tanto da nascondersi alla vista, faceva sicché «la creta, scagliata dalla ruota, saliva intorno al braccio del vasaio, in forma di un enorme calice di fiore»: una carne “vibratile e molle” che irradiava organicità. Allora «la rozza argilla veniva assumendo sensuali delicatezze d’epidermide, vellutamenti di mucosa. E in quell’avvicendarsi e perdersi di linee e movimenti, a volte sembrava balenare la curva d’un seno, lo scorcio d’una guancia 41» Proprio in quel “volgere della ruota” si nasconde un ventaglio aperto di forme plastiche.
Questo ha fatto, tra l’estesa catenaria di vasai, anche Santo Emanuele 42, un esempio di orciaio vissuto a Santo Stefano di Camastra (a rappresentare, per restare in Sicilia, coloro i quali producono negli arcaici territori animati da tale plastica armonia: da Caltagirone a Collesano, da Sciacca a Burgio). Egli, come tanti, munito d’innata passione creativa, si esprime in manufatti domestici; ecco le forme empatiche delle stoviglie, dei piatti, ecco il lemmu, la burnia, i vasi, le lucerne, a mostrare quel ‘fare’ fortemente ancorato nella vastità materiale del tessuto ceramico. Pensare al lavoro modellante della mano significa coinvolgere la virtù del tatto a tutta la sfera sensitiva e, da questa, proiettarla nella sfera comunicativa. Allora, se osserviamo l’esteso diorama degli oggetti nella pedana del quotidiano, accogliamo ciò che per il creativo artigiano (qui in forma di prototipo) fu il colloquio a lui più congeniale: trasmettere la sua simbiosi con il fermento della materia terrestre, con quella stessa radice etimologica di Kar che richiama il fuoco, il suo ardere, costituendo misura ideale per l’esito del prodotto, per un respiro d’arte da condividere nelle forme quiete di stoviglie, toccate dalla personalità stilistica, maturate tra le vesti di un’arcaica eleganza. Passioni che, dalla serialità, sostano, inavvertitamente, in creative posture, volte all’umiltà, al silenzio, profuse in un campionario domestico in cui si aggiungono sobri elementi di abbellimento, piatti con decori, minuscole incerte modanature.
Ed ecco che i manufatti prossimi all’umiltà delle ‘stoviglie’ appaiono d’impeto in poesia; un esempio lo ritroviamo nel Lex Icon di Salette Tavares (artista e poetessa nata in Mozambico nel 1922 e morta in Portogallo nel 1994) che Gillo Dorfles 43 presenta nella sua felice simbiosi verbale-visuale, in quell’identificazione, ad esempio, «con il recipiente, col suono dell’acqua che bolle» in una pentola. Così in Tavares tutto si sublima, ogni cosa conquista una propria privata gloria: «la tovaglia-isola, dove i piatti danzano, i bicchieri illuminano, le ceramiche sono ninfee bianche». Tavares, tra le fascinazioni atmosferiche dei cassetti, degli armadi, dipana la sua esistenza: «Gli armadi sono strumenti di musica. | Hanno un fuori grande pancia voluminosa con il lucido dei pianoforti e violini. | Hanno le viscere rumorose imbavagliate dalle porte | e guardano | come chi ascolta. | Gli armadi sono sempre ripieni di misteri | di rumori che si tacciono | e | solo quando si apre la porta accade l’aprirsi della grande bocca sonora 44». Armadi percepiti in poesia come un moderno strumento, «quasi uno studio di fonologia», così il bicchiere è “conchiglia traslucida della luce”; lei avverte «il poetico peso del suono»; “datemi parole” – scrive – “e scoprirò le cose”, e segue: “datemi cose e scoprirò le parole”; e le parole, nei versi di Tavares, si distanziano, necessitano di lunghe pause, di silenzio; ciò che Dorfles definisce «culto dell’intervallo» o valore fondamentale della pausa, si dota, afferma, di una “pregnanza inattesa” restituita alla rarefazione, all’oblio del suono; consegna valore più all’«aspetto negativo di quello positivo d’un fenomeno percettivo; come cioè l’assenza dello stimolo percettivo (sonoro o verbale come nel caso di queste poesie)». Questi gap debbono essere rilevati quali intervalli non imparziali in quanto si pongono, con lo stesso peso, di fronte alla parola scritta; non si avverte regressione nella distanza tra il prima e il dopo. Stoviglie, oggetti, mobilio o la casa abitata dalle cose, son dunque figure accolte, percepite poeticamente, esse si dispongono in una sorta di aura sacrale e con Salette Tavares (formatasi con il filosofo Maurice Merleau Ponty), si rafforza il concetto che: «Fabbricare è il servizio più religioso dell’uomo» (Gli oggetti). La novità del registro formale in Lex Icon, avverte Riccardo Averini, l’interprete de I Lusiadi di Luis de Camões, spinge in avanti la cifra poetica rispettando i tempi delle trasformazioni linguistiche, nella creazione promossa da oggetti d’uso; su tale pentagramma linguistico-sonoro, fenomenologicamente aperto, è ancora Dorfles a rilevare come:
[…] Alla stessa maniera di quanto avviene in molta recente arte visiva, Salette crea «oggetti poetici» che molto spesso sono la diretta metamorfosi degli oggetti d’uso, degli oggetti ambientali, di cui ci serviamo nella nostra vita d’ogni giorno e che, attraverso la stesura poetica, acquistano una vitalità fino allora ignorata e latente. Si prenda la descrizione della Scarpa, del Bollitore, dell’Armadio, del Letto, quello della Calza, del Guanto (ognuno di questi «personaggi poetici» è «ritratto» in una sua specifica poesia). Ebbene, ciascuno di questi oggetti (potremmo parlare d’un Système des Objets alla Baudrillard) diventa, attraverso i versi di Salette, un’unità verbale-visuale; si trasforma in un’entità vivente e autonoma, che non ha più bisogno d’una «descrizione» a base di pesanti aggettivazioni, perché vive del suo alone fonetico-semantico 45.
Un abito fonosimbolico perfonde tale costruzione poetica votata al ‘domestico’, diventando congeniale alla percezione multisensoriale, con varianti morfosintattiche, lessicali e ortografiche, polisemie, onomatopee le quali definiscono parole e oggetti, in quel loro straripare le une sugli altri e viceversa, o, come avviene nel testo Le posate, – dove si narra del ‘temperamento’ del coltello o della forchetta, – la poetessa, esponente della poesia concreta (una sua codifica la esplicita come ‘poesia grafica’, anche se, in questo caso, non si tratta di funambolismi grafici) (Fig. 7), ricalca in versi l’immagine di copertina della edizione italiana (Fig. 8) ornata dal disegno di Munari: «Con i denti contorti dal tempo | la forchetta diventa espressiva | così | nelle mani di Bruno Munari | la forchetta è un arlecchino | di maschera e gesto 46».
Se il fabbricare, come detto, è gesto sacrale la cui epifania s’identifica con l’intensità della parola riemersa dagli oggetti, dalle architetture e dalla loro effusione di sentimenti, è la necessità di devozione a incarnarsi nei figulini presepiali dove, tra i privilegi della sede, il Mezzogiorno offre tutte le materie a tale sacra rappresentazione: dal corallo alla cera, dalla pietra al legno, dalla cartapesta al gesso all’argilla; e, bisogna notare come il cambiare delle materie non muti il senso misterico e il calore fideistico di una vicenda che ha stravolto il corso della storia. Scrittura e attività plastica, poesia e architetture, paesaggio e scultura, pittura e fotografia, nessuna azione estetica, dal comparto artistico all’artigianale, nulla toglie al fascino di un comune denominatore. Così pur versati, a volte, in un vago disordine estetico la loro attrazione è accertata. Quando Cecchi racconta della bottega del vasaio, trova la cifra del presepio intatta e toccante: «C’era un riflesso di greca leggiadria», annota, nel modo ond’era interpretata la tenacia di un capretto e il suo “dar di corna”; «ma i girasoli e gli occhi di pavone che decoravano i manti di alcune madonnelle, ci riportavano piuttosto al secessionismo bavarese 47». Nel capitolo Istituzione del presepio 48 ecco che la narrazione prende corpo dalle profonde radici popolari proponendo in che modo il raccolto luogo del presepio sancisca che la Chiesa, per Cecchi, «è meno Tempio e più Casa»:
[…] Ora i ragazzi fanno il bilancio dei loro quattrinelli. Occorre rinfrescare il Presepio. L’asino ha perso le orecchie. E il bue ha perso la coda. Andando a scuola, adocchiano dal cartolaro la cometa, il gloria in excelsis, che ci vorrebbero. Mentalmente ricontano i soldi. E tornando dal giardino pubblico s’empiono le tasche di borraccina e di ghiaia. Non mostriamo d’esserci accorti che è sparita quella vecchia porcellana con tre pecore intorno a una pastora. In funzione di collina, presso un laghetto fatto con un tegame, la ritroveremo fra qualche giorno nel Presepio.
È questa una delle più forti ragioni che militano per il Presepio; quando, in ipotesi, si scartassero tutte le altre ragioni, d’indole religiosa, storica, etnica, che hanno di per sé valore assoluto. Il Presepio è il primo tema di composizione poetica, il primo soggetto d’invenzione lirica, il primo paragrafo della tradizione, che il ragazzo si trova sottomano; e che sente bisogno di interpretare, spendendo le sue poche lire, e con l’aiuto di alcuni ammennicoli e d’un po’ di ovatta. Non soltanto è la più lieta divozione cristiana, ma una famigliare celebrazione delle origini dell’arte 49.
Ad ogni modo nella casa spirituale che può essere l’enclave della famiglia, la bottega artigiana, il lavoro dei figulini per varie materie, il procedere nel decoro o il lasciare nella materia grezza il messaggio che la minuscola figura divina vibra nel tempo delle liturgie comportamentali (e dove l’allestimento del presepe costituisce punto di forza), la cifra che emerge è quella vestita dalle emissioni sociali, della contemplazione, della ludica sacralità; e, a volte, come per Giorgio Manganelli, persino luogo dove “regna l’angoscia”, nel quale tutto è in “permanente disordine, sebbene tutto sembri anche regolato da una legge immobile, che non consente smagliature” 50. Lo stesso Quasimodo ne trae, famigliarmente, un commosso e descrittivo quadretto nel suo Natale del 1953, mentre guarda «il presepe scolpito, | dove sono i pastori appena giunti | alla povera stalla di Betlemme 51».
Non c’è materia che non tenti di sublimare la natura nel momento in cui è attraversata dall’opera umana. Così Agnoldomenico Pica, per una personale di Rosario Murabito (Catania 1907-Casoli di Camaiore 1972), ricorda come sui primi del Seicento, Tommaso Garzoni, tessendo l’encomio della concia delle pelli («opera comodissima all’uomo, onde se ne tranno scarpe, stivali, borzacchini, pianelle, zoccoli»), certo “non poteva immaginare che il suo elenco fosse incompleto”, ciò per l’assenza della pittura. L’opera di Murabito subisce in maniera assoluta le suggestioni a volte tormentose per le materie più disparate: dal bronzo alla terracotta, dall’olio all’inchiostro, dal pastello alla matita, dal collage ai sassi, al cuoio. Alla tensione aulica e verticalistica delle sue terrecotte che lo mettono in parallelo con l’accertata maestria dello spoletino Leoncillo, l’espressione che maggiormente attira la ferinità del linguaggio di Murabito è il collage composto con ritagli del cuoio (pelli rese imputrescibili dopo opportuna conciatura): «grandi armonie e geometrie di accordi tonali», dichiara il saggista Cesare Garboli, ma anche, continua, «non senza ardimentoso eclettismo, postcubisti. Queste tarsie di cuoio le lavorò con solitario compiacimento, con un dialetto e una creatività, si direbbe, sentita come in gioco sovranamente intimo». E, continua, osservando come tale composita materia avesse quale privilegiato bersaglio la volontà di oltrepassasse la pittura, infatti, «questi cuoi hanno qualcosa di tribale, come i fuochi accesi nelle tende.» Per questo essi «reclamano un bisogno o una nostalgia di vita primordiale, simili a grandi sogni barbarici 52». Assistiamo alla rappresentazione di un’inquieta sofferenza osservando il grande collage Immagine della condizione umana III (Fig. 9); lacerti figurali alternano la vetrificata macerazione di un primo piano corporeo a sagome articolate in un umoroso patchwork, tra toni monocromatici percorsi da bagliori di luci, fermenti di fuochi, travagli; strutture dalle quali emerge un diorama settorio, una colatura raffrenata e irrigidita dal tempo e da una chimica spontanea. Allo stesso modo La città sacra, un collage di cuoio su masonite, distribuisce l’intercalare transizione di frammenti, di silenziose e a volte ostili forme a delimitare i perimetri di un’urbanità inviolabile e allo stesso tempo travolta nella sua primaria essenza: un taciturno vissuto sommerso dai banchi che scivolano su di una tettonica che tende a fagocitare l’arcaica toponomastica nella quale bruniti mattoni di un passato remotissimo sembrano essere svelati da una casuale aerofotogrammetria. Si percepisce, con chiarezza, una vibrazione sotterranea, a volte cupa come se il colore fosse, lo afferma il poeta e critico Raffaele Carrieri, «diventato più libero nelle sue varie tonalità sonore» e si ha l’impressione che «gli strumenti» di Murabito (artista che ha richiamato l’attenzione di Fabrizio Clerici) «stiano concertando una nuova musica 53». Tale musicalità si colloca trasversalmente nutrendosi del peculiare delle materie utilizzate da Murabito che si presentano stirate, come una pelle d’asino, in un macabro lenzuolo utile alle percussioni protese sul tamburo del mondo; e allora, dai cuoi fino ai sassi di pelle toccati da vibranti incisioni, alle geografiche segnalazioni di terre rese silenti nel loro accogliere corpi, materie organiche, ogni elemento si accumula nell’imbuto degli anni in attesa di una possibile rigenerazione (Fig. 10).
Un’affinità per materie spinge la nostra attenzione sul contemporaneo percorso ri-creativo ed espansivo di Emanuele India codificato nel sincretico apporto di culture e abilità operative: dal gusto bizantino all’ornamento, dal procedimento di un labor che s’identifica a una mistica, al tempo della ‘preghiera’, al corpo a corpo con una filosofia della natura permeata dal sacro e poi riversato in una ontologia corroborata dalla pratica del restauro librario alla sensibilità cartacea attinta dalla cultura basiliana: elementi che trovano in Mezzojuso (centro del palermitano) il loro epicentro, sin da quella scuola di iconografia siculo-cretese sostenuta dall’iconografo Joannikio. Su tali molteplici chimismi si aggiunge, come già detto, la scelta dei materiali da stendere nelle superfici come il cuoio. Un materiale biologico lavorato non soltanto quale attenzione filologica, ma che s’inserisce anche nel dibattito della pittura e scultura della contemporaneità 54 (Fig. 11).
4. Germinazioni. Nel suono. La corda del funambolo
Il saper fare accoglie, nell’intenzione coltivata dai Greci – ricorda Sergio Givone – «la parola téchne», e non a caso essa «abbraccia un ambito più ampio che non la nostra parola arte, perché comprende arti belle e arti invece puramente tecniche, per altro verso questa parola esclude attività che noi comprenderemmo senz’altro nel concetto di arte 55»; un esempio è la poesia, la quale faceva parte del vasto pianeta espressivo della musiché orientata dalla ispirazione delle Muse. Un’ermeneutica della conoscenza, dunque, per cui la parola si consuma nella sostanza dell’arte e al suo innato bisogno d’indagare, ri-creare ed essere indagata. Ogni creativo subisce tale magnetismo, ne è partecipe ed è pronto a ri-creare la ‘sua’ realtà, alimentando altresì il generale bisogno veritativo. Su tale impianto la figura di Amalia Del Ponte 56, – nella cui recente verifica critica il curatore, Vincenzo Maria Corseri, insiste sulla “funzione eminentemente sinestetica”, – (Fig. 12) prende corpo una pertinace logica votata alla ricerca, all’intersezione degli elementi percettivi in cui i sensi giocano un ruolo non indifferente sull’ampliamento di rinnovati punti di vista, e un ufficio rilevante con l’acquisizione di nuovi modelli e del come leggere quanto ci circonda in senso cosmico. Nuove assunzioni di verità che possono essere espunte dalla sollecitazione delle cose, dalla loro trasformazione e dal continuo confronto con la natura e dalla restituzione che esse, cui si è attribuita una funzione specifica, possano, se opportunamente sollecitate, restituire altre voci, altri suoni, altri comportamenti estetici, altre relazioni, così come accade nella mente di questa architetta, la quale in tale processo d’integrazione che pervade la scultura, ecco concretarsi la simbiosi tra artigianalità ed elevazione intellettuale lasciando da canto ogni razzismo ideologico. Quest’allieva di Marino Marini, – valoroso sperimentatore di tecniche e materiali, sensibile all’arcaismo e trasmettitore della sua poetica attraverso i suoi “Cavalieri”– s’impone di trarre dall’arborescente sviluppo dalla sua primaria impostazione costruttivista una dimensione più assoluta dell’idea di analisi in cui gli elementi, dal biologico all’inorganico, fanno parte, nel loro esistere e nel loro essere materie di trasformazione, – evoluzionisticamente votate agli scarti e quindi al cambiamento, – a una congiunta azione di metafora della natura. Cosicché ogni frammento, ogni singola materia, dal gesso al bronzo, dal plexiglass al marmo alla terracotta, si presenta quale icona d’una precisa sineddoche per rilegare e investigare quel ‘tutto’ spingendolo a emettere un suono comune. È pertinente affermare che la Del Ponte, lo evidenzia Anne Marie Sauzeau Boetti, «non lavora sulla forma ma nella forma 57»: ancor più attraversandola, mossa da una tensione espansionistica sulla materia, sulla possibile conoscenza dell’architettura molecolare e delle tensioni ideali che tale architettura suscita nei recessi della memoria. Un ingresso ontologico, il suo, che si spinge anche nella storia chimico-fisica e che, in certi casi, come un congegno a scatto, prende consistenza un fiato sacro: a poco a poco si fa spazio, diventa messaggio, conoscenza. Riteniamo che l’esperienza legata all’Accrescimento di un cristallo del 1974 (Fig. 13), per l’assetto speculativo e coscienziale promosso dall’osservazione, è un invito a valutare, da spettatori curiosi (com’è nella natura del puro filologo incarnato dalla figura di Eratostene da Cirene) in che modo i cristalli, posti in recipienti di ‘coltura’, ci informano della loro gelida inerzia pronta a trasmettere segnali alla coscienza. Un nucleo iniziale (e iniziatico) di un dinamismo che interfaccia, attraverso la riflessione, i primordiali molecolari reticoli quali avviatori di input neuronali: un coinvolgimento e un’estensione della nostra capacità di ri-flettere (quel flettere su se stessi) su quanto qui amiamo circoscrivere con il termine di ‘tessuto comune’. L’Accrescimento è rappresentato da una vaschetta in vetro, una sorta di capsula di Petri, un microscopio che permette l’osservazione auxologica, termometri e allume di potassio in soluzione (potassio dodecaidrato o allume di rocca). È noto, per altro, in che modo, usando la polvere di allume in una soluzione satura in acqua tiepida, e inserendo un seme di cristallizzazione sospeso da un filo, dopo una decina di giorni si possa ottenere un minuscolo cristallo ottaedrico. La conoscenza e l’uso dell’allume ha storia antichissima (nota la Grotta dell’Allume a Vulcano): fissante per colori (nella tintura della lana, nell’esecuzione delle miniature su pergamena, per la conciatura delle pelli e la produzione del vetro), e, in medicina, una efficace funzione emostatica. Ci troviamo a confronto con un procedimento affine alle esperienze di ricerca biologica firmato nel 1917 da un allievo di Augusto Murri, Angelo Ruffini. Il grande istologo e fisiologo generale, propugnatore delle interrelazioni tra ‘forma e funzione’, scopritore dei meccanorecettori sensoriali siti in ambito cutaneo (‘Corpuscoli di R.’), indaga, in quel tempo, sulle variazioni morfo-dinamiche di emulsioni di mercurio, in presenza d’un cristallo di bicromato potassico, osservabili al microscopio cui si attribuiva il nome di “amebe e comete mercuriali 58”. È indubbia la coerenza di quest’artista alla sua filosofia naturale capace di estrarre forme d’energia da mute porzioni del pianeta; l’esempio dei litofoni (Fig. 14), esemplati su lastre marmoree, di travertino, nelle diverse forme euclidee, e resi veri e propri strumenti da battere con opportuni percussori lignei affinché possa svincolarsi un flusso sonoro, restituiscono un’armonia da troppo tempo resa segreta, miscelabile in ogni singolo ‘auscultare’; un accostare, suggerisce Eleonora Fiorani 59 «la grammatica della musica e la grammatica della struttura della materia», un rintracciare «le corrispondenze tra onde sonore e onde luminose» (Fig. 15). Tutte le soluzioni in cui s’innesta il variabile dei medium espressivi amplifica il campo semantico: ora con la metafisica della Porta senza porta (2015), – un’estetica dell’ “uscita” e del “levare”, avverte Tommaso Trini 60, – (un’elaborazione del vuoto che s’innesta proficuamente anche nella attività di design di Amalia Del Ponte), ora con l’urgenza di un métissage sensoriale che spinge a udire la luce, a ‘toccare’ le forme assunte dal suono e, in fin dei conti, a indagare l’intimo tremore delle cose. Ordunque le lastre che raccontano “l’acqua nell’acqua”, in un’eteroclita proiezione di tracce paesaggistiche, fluviatili secreti da parietali lapidei, si confondono con la complessità della poetica delle sue pietre sonore, o con i “Tropi” suggeriti da Vittorio Fagone, e, ancora, con la sensazione di poter accogliere nella nostra mente la massa delle materie che ci avvolgono: una prossimità di materiali in apparenza lontanissimi (cemento/plexiglass), ma ‘cosmologicamente’ prossimi e inaspettatamente aperti al dialogo.
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Nelle pagine contrassegnate dal titolo “Io vi dico: bisogna avere del caos dentro sé”, Peter Sloterdijk (l’iperbolico autore della ‘ragione cinica’), mette, opportunamente in evidenza (in riflesso, lo Zarathustra di Nietzsche), come non ci si debba «far mettere fuori strada dal fatto che qui sperimentare significhi creare. Anche il funambolo è uno sperimentatore, un creatore di intraprese. Uno che si avventura nell’insicuro. La sua caduta è la firma in calce a un’opera, e Zarathustra parteggia per lui 61». Da tale radicalità emerge l’insistita domanda sulla modernità delle arti, sulla presunta coazione della metafisica occidentale, sulla produttività; una modernità – avverte Sloterdijk – che «sarà sempre proporzionale alla libera volontà per l’esperimento più alto concepibile in rapporto a ciò che fino a quel momento era ritenuto lo stato dell’arte».
Non resta, quindi, il desiderio di elevarsi (da se stessi) dalle intime ‘turbolenze’ del caos che agitano ogni animo? e andare verso “una forma che trasfigura”, dilatando quella volontà euristica del nostro pensiero posto al centro del proprio fuoco vitale, mentre si dubita su quale via intraprendere? Ma, – ripetiamo a noi stessi, – gustando la ‘costituzione ontologica’ di Sloterdijk in cui si ritrovano tutti gli esseri (macchine comprese) del pianeta che, pur distanziati da certi suoi stretching passionali, non possiamo non osservare le insidie della ‘trasfigurazione del banale 62’, le crepe sull’orientamento del gusto estetico legato alla produzione, il mercato roso da un evidente “imborghesimento del desiderio”. Una crescita stagnante di conservatorismo non soltanto per opere targate (connotato volgare dello status symbol), ma dilagante sulle vaste trincee di ricerca, sul groviglio spesso contraddittorio delle ipotesi e che, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla poesia, dal design alle arti applicate e ai cammini della scienza, il segno della magnetica attrazione nel comune tessuto e nell’organicità vitale delle arti va assumendo una sua fisionomia. Appare sempre più necessario l’aprirsi all’ascolto dell’armonia sensibile insita nel silenzio: da quello materiato nel piccolo dio egizio Arpocrate al busto aprosopo d’Euesperide che riposa in terre libiche, alla foto di Annalisa Cima che ferma l’invito al silenzio di Aldo Palazzeschi 63.
Amando i funamboli sostituiamo l’idea che la ‘firma creativa’ della loro impresa possa essere sancita dal loro tragico precipitare nel vuoto. C’è un’emozione più solida che si attaglia al loro coraggio: e quella di Philippe Petit ne è l’esempio più emblematico 64. Lui, che dopo la passeggiata tra i due campanili di Notre Dame, attraversa, nel 1974, su di una fune a quattrocento metri di altezza, le ‘Twin Towers’ di New York, è certo tra i più affascinanti creatori presenti sulla pedana dell’arte. La firma migliore di una performance, di una creazione; noi la avvertiamo, integra, proprio in quel riempire, con un’opera aerea e corporea, il baratro della sponda. La fune, qui, non è servita per l’inciampo: piuttosto, generatrice di consapevoli riflessioni, canta il fuoco della sua pirotecnia estetica; chiarisce, del vuoto, la sua consistenza; accoglie nella propria memoria pulsante una nuova gloria dell’arte.
- O. Bertoli, in “Sapere”, Milano 1947, p. 267.[↩]
- E. Bonora, DBI, 1960; Cfr. Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, Opere, a cura di E. Bonora, Milano-Napoli, 1969; Francesco Algarotti, Viaggi di Russia, a cura di P. P. Trompeo, Torino 1979.[↩]
- B. Berenson, Estetica ed Etica e storia delle arti della rappresentazione visiva, Firenze 1948, pp. 115-116.[↩]
- Francesco Algarotti, Viaggi di Russia, a cura di P.P. Pompeo, Torino 1961, p. VIII.[↩]
- Orazio, De arte poetica, 343. Cfr. anche G. Becatti, W. Koehler, in “Enciclopedia dell’Arte Antica”, 1966.[↩]
- A. Baratono, Il mondo sensibile, Messina, 1934, p. 9. Per un esteso resoconto per tale pensiero filosofico cfr. G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo, Milano 1996.[↩]
- E. Cecchi, Corse al trotto e altre cose (1931-1941); Firenze 1952. Di Cecchi (Firenze 1884-Roma 1966), ricordiamo: Pesci rossi, Firenze 1920; Et in Arcadia ego, Milano 1936; Corse al trotto. Saggi, capricci e fantasie, Firenze 1936; Pittura italiana dell’Ottocento, Milano 1938; Qualche cosa, Firenze 1943; Piaceri della pittura, Venezia 1960.[↩]
- N. Sapegno, in Corse al trotto, cit., nota critica in ‘risvolto, 1952.[↩]
- Idem, pp. 161-162. Per un’estensione sul tema corallino cfr. I grandi capolavori del corallo. I coralli di Trapani del XVII e XVII secolo. Catalogo della mostra a cura di V.P. Li Vigni-M.C. Di Natale-V. Abbate (Catania, 3 marzo-5 maggio 2013; Trapani, maggio-giugno 2013), vol. 130, Milano 2013; Mirabilia coralii. Manifatture in corallo a Genova, Livorno e Napoli tra il Seicento e l’Ottocento, a cura di C. Del Mare, Napoli 2012.[↩]
- Idem, p.163.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Idem, p..458 e sgg.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Idem, p. 456.[↩]
- G.T. di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1963, p. 177.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Ibidem, p. 175.[↩]
- Cfr. G. Simmel, “La cornice” in Il volto e il ritratto, Bologna 1985, p. 102.[↩]
- T. Griffero, Estetica patica. Appunti per un’atmosferologia neofenomenologica, in “Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica”, «Studi di Estetica», N° 1-2 (2014). Id. Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Milano 2016.[↩]
- L. Altomare, Case popolari, vv.39-44, in: I poeti del futurismo 190-1944, a cura di G. Viazzi, Milano 1983, p. 212.[↩]
- G. T. di Lampedusa, Racconti, 1961, pp. 135-136.[↩]
- G. Bassani, premessa a Il Gattopardo, 1963, p. 8.[↩]
- L. Piccolo, Canti barocchi, Milano 1956.[↩]
- L. Piccolo, Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche, Milano 1960.[↩]
- Le citazioni dei versi di “Oratorio di Valverde” in Gioco a nascondere…, 1960, pp. 51-55.[↩]
- Cfr. la prefazione di E. Montale per la prima edizione dei Canti barocchi e riproposta in Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche alle pp. 101-108.[↩]
- Supra, alla nota 12.[↩]
- “Oratorio”…, ai vv. 31-44.[↩]
- G. Pellegrini, Della artificiale riduzione a solidità lapidea e inalterabilità degli animali scoperta da Girolamo Segato, Padova 1835.[↩]
- F. P. Campione, Corpi come cose: Gunther von Hagens e la trasmutazione del “vivente”, in “Atti dell’Accademia delle Scienze Mediche di Palermo, «Giovanni Filippo Ingrassia»”» fasc. I; N.S., Palermo 2022.[↩]
- E. Cecchi, Corse al trotto…, 1952, alle pp. 144-145.[↩]
- G. Zagarrio, Le ricamatrici della Kalsa, Firenze 1958.[↩]
- S. Morso, Descrizione di Palermo antico ricavata dagli Autori sincroni e da’ monumenti de’ tempi, Palermo 1825, p. 55.[↩]
- G. Zagarrio, cit, versi del segmento “gli aghi e l’arazzo”. Cfr. Zagarrio, in A. Gerbino, Sicilia, poesia dei mille anni-inventario dal «pozzo dorico», Caltanissetta-Roma 2001, pp. 530-532.[↩]
- C. Govoni, Le Fiale, Firenze 1903. Cfr. Crisoprassi d’amore, in: Poeti simbolisti e liberty in Italia, a cura di G. Viazzi – V. Scheiwiller, Milano 1972, p. 109.[↩]
- G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, Torino 1976/1989.[↩]
- G. Kubler, La forma del tempo…, 1976/1989, pp. 7 sgg.[↩]
- G. Lionetti-M. Pelosi, Le antiche fornaci per la produzione di tegole e mattoni, in “Mathera”, anno IV n. 11, 21 marzo 2020, pp. 26-33.[↩]
- E. Cecchi, Corse al trotto…, 1952.[↩]
- E. Cecchi, Corse al trotto…, 1952., pp. 156-157.[↩]
- Ibidem.[↩]
- A. Gerbino, Emanuele. Mosso dal cuore per agili dita, in “Santo Emanuele”, catalogo della mostra a cura di F. Fratantoni-E. Samuel-C. Donato Soupama, Santo Stefano di Camastra, Messina 2021, pp. 18-19; 85-86.[↩]
- S. Tavares, Lex Icon, a cura di V. Scheiwiller, Introd. di G. Dorfles, Milano 1977.[↩]
- S. Tavares, Lex Icon…, 1977, p. 29.[↩]
- S. Tavares, Lex Icon…, 1977, pp. 8-9.[↩]
- S. Tavares, Lex Icon…, 1977, p. 61.[↩]
- Supra, alla nota 39.[↩]
- E. Cecchi, Corse al trotto…, 1952, pp. 472-473.[↩]
- Ibidem.[↩]
- G. Manganelli, Il presepio, Milano 1992, p. 73.[↩]
- Cfr. Notte folgorata dalla stella. Piccola crestomazia santa, a cura di A. Gerbino, Caltanissetta-Roma 1999.[↩]
- C. Garboli, in “Murabito”, catalogo Mostra Antologica, 31 luglio-30 agosto 2009, p. 5.[↩]
- R. Carrieri, in Murabito…, 2009, p. 6.[↩]
- Cfr. A. Gerbino, Emanuele India e la gloria del fare, in “Dialoghi Mediterranei”, 1 maggio 2022. Cfr. Emanuele India, Sfere di luce: vibrazioni e sonorità armoniche, catalogo della mostra (15 Dicembre-30 Dicembre) a cura di F. Mezzatesta, Palermo 2021.[↩]
- S. Givone, La téchne greca, in “Pantarei”, 29 Aprile 2014.[↩]
- Cfr. Amalia Del Ponte, antologia critica dal 1962 al 2021, a cura di V. M. Corseri, Milano 2021.[↩]
- Amalia Del Ponte…, 2021, pp. 69-73.[↩]
- A. Ruffini, Alcune esperienze sugli effetti della variazione di tensione superficiale amebe e comete mercuriali microscopiche, Bologna 1917.[↩]
- E. Fiorani, in Amalia Del Ponte…, 2021, p. 57.[↩]
- E. Fiorani, in Amalia Del Ponte…, 2021, p. 141.[↩]
- P. Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, Milano 2017, pp. 101-104.[↩]
- A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, Roma-Bari 2008.[↩]
- A. Cima, Incontro Palazzeschi, Milano 1972.[↩]
- The Walk, film del regista R. Zemeckis, 2015.[↩]