L’immagine a colori della “Corazza di Teodorico”, capolavoro scomparso del cloisonné tardoantico
elisa.emaldi@cultura.gov.it
DOI: 10.7431/RIV27082023
Alla metà dell’Ottocento avvenne a Ravenna, in un contesto di necropoli, il ritrovamento 1 di una rara e complessa opera di oreficeria nota come corazza di re Teodorico; del suo rocambolesco ed enigmatico furto accaduto a settant’anni dalla scoperta è stato scritto molto ma senza che ciò abbia portato al recupero della refurtiva 2. L’unico mistero ad essersi nel frattempo dissolto è la funzione dell’oggetto, oggi unanimemente riconosciuto come decorazione di una sella da parata 3: nella letteratura specialistica più aggiornata il manufatto è giustamente definito “sella di Ravenna”.
Il presente contributo vuole far conoscere un’immagine poco nota del reperto che, a differenza delle fotografie d’epoca 4, rende possibile apprezzare quel “fastoso senso del colore”, dato dalla composizione a cloisonné di granati, che ne aumentava l’effetto di grande pregevolezza estetica. Pare innanzi tutto opportuno riportare alcuni elementi 5 sulla storia del rinvenimento di quel “preziosissimo cimelio” ad oggi ancora purtroppo perduto 6.
Nella primavera del 1854 vennero organizzati a Ravenna alcuni lavori per allargare un ramo della Darsena di città. Durante gli scavi si intercettò parte di un’antica necropoli 7, con sepolture in terra, in cassa di laterizio e in anfora: vennero rinvenuti anche svariati oggetti di corredo, alcuni in metalli preziosi. I materiali pregevoli vennero subito recuperati dagli operai che se li spartirono e fusero in parte gli oggetti in oro. L’accaduto giunse però alle orecchie delle autorità e scattarono le indagini: nei giorni successivi le forze dell’ordine riuscirono a salvare dalla dispersione alcuni manufatti e a rientrare in possesso di una parte dell’oro ottenuto dalla fusione.
Gli oggetti di maggiori dimensioni recuperati dopo le indagini furono “tre pezzi di oro gioiellati di minute ingranate”: due elementi speculari e una lamina curva. Le due guarnizioni d’oro di forma a D, che erano tra loro analoghe per dimensioni (pari a circa 24 centimetri di lunghezza e 8,5 di larghezza) e per ornato, in filigrana e cloisonné con piccoli granati di diverse forme, furono dapprincipio definite come “opera bizantina di somma eleganza e precisione”, ma vennero poi riconosciute come prodotti “della oreficeria barbarica dei Goti”, attribuzione rafforzata dall’analogia tra il motivo decorativo al bordo dei manufatti e il cosiddetto fregio a tenaglia 8 scolpito nel cornicione sotto la cupola monolitica della tomba del re goto (Fig. 1).
Iniziò presto la querelle degli eruditi ravennati sia sull’appartenenza del corredo, che per ricchezza e perfezione era evidentemente espressione di una committenza principesca, sia sulla natura dei due manufatti speculari, definiti come “corazza” pur senza nessun tipo di confronto disponibile. L’ipotesi che si trattasse di ornamenti legati al re goto ebbe comunque molti sostenitori, anche per il fatto che la zona dello sterro si trovava a poca distanza dal Mausoleo.
Alla fine degli anni settanta il prezioso ritrovamento era noto anche oltre i confini nazionali e nel 1878, dopo una visita al Museo di Ravenna, dove i reperti erano esposti 9, Ferdinand de Lasteyrie produsse per la Society of Antiquaries of London un intervento, che venne pubblicato postumo in inglese nel 1880 10, corredato da una “riproduzione fedele” degli “ornamenti di corazza” a cloisonné.
L’erudito li definì “gli esemplari più perfetti di questo tipo di lavorazione che abbia mai visto”. Occorre ricordare che il conte Ferdinand-Charles-Léon de Lasteyrie du Saillant (1810-1879) – che già dagli anni quaranta, oltre a ricoprire incarichi politici, era membro delle Commissioni dei Monumenti Storici di Francia, della Société des Antiquaires de France, dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres – nel 1875 aveva pubblicato la monumentale Histoire de l’orfèvrerie depuis les temps les plus reculés jusqu’à nos jours.
Nonostante la sua preparazione tecnica e il suo interesse per l’artigianato, buona parte del saggio è un resoconto di carattere generale con poche note artistiche e la descrizione effettiva del manufatto è piuttosto limitata. Lesteyrie fornisce soprattutto informazioni storiche 11 ma traccia altresì un sicuro confronto con le oreficerie gote a cloisonné; sottolinea con particolare enfasi l’enorme importanza degli oggetti, “la loro perfetta lavorazione, raffinatezza e ammirevole stato di conservazione” e afferma che “nulla può dare un’idea adeguata della regolarità e delicatezza del lavoro, in cui migliaia di minuscoli pezzi di granati orientali sono intarsiati e separati tra loro da sottili tramezzi d’oro”. E la forma data ai granati, così varia e complessa, renderebbe tanto ardua la descrizione da rendere assolutamente necessario il ricorso a una tavola illustrata 12 (Fig. 2).
Ma quale attendibilità si può attribuire alla fotolitografia, unica testimonianza visiva a colori del manufatto ad essere stata pubblicata 13? Il confronto con il materiale grafico e fotografico conservato è già una risposta sufficiente, ma va ricordato anche che Ferdinand è un grande conoscitore della tecnica di riproduzione a stampa. Suo padre, il conte Charles Philibert de Lasteyrie du Saillant (1759-1849) era stato il pioniere della stampa litografica in Francia. Ferdinand già in un’opera precedente, la sua imponente Histoire de la peinture sur verre d’après ses monuments en France (1853-1857) non solo aveva personalmente rilevato le vetrate ma aveva curato direttamente le riproduzioni litografiche delle 110 tavole che l’illustravano, per evitare che gli incisori ne “abbellissero” il disegno. Non fidandosi della cromolitografia che, ancora agli albori, non avrebbe reso con efficacia la trasparenza dei colori, aveva in quell’occasione fatto colorare a pennello ognuna delle tavole 14. Questa preoccupazione di utilizzare la tecnica di riproduzione più fedele non lo abbandonò mai. Per la riproduzione della corazza la Society of Antiquaries de Lasteyrie si rivolse a William Griggs (1832-1911) un pioniere della diffusione delle stampe a colori oltre che inventore del procedimento di cromolitografia a base fotografica.
La tavola che riproduce la ‘corazza’ rende evidente come l’aspetto preponderante del manufatto fosse l’effetto coloristico rosso/oro che, come ebbe a scrivere la storica dell’arte Eva Tea, sovrastava la stessa decorazione plastica: la struttura ad alveoli conteneva circa 1200 pietre, quasi esclusivamente almandini (Fig. 3).
È opportuno sottolineare la grande diffusione e l’enorme apprezzamento riservato al granato 15, o carbunculus 16 sin dall’Antichità, e non solo nell’Europa barbarica, tanto da rendere la definizione Garnet millenium 17 assolutamente calzante. In Occidente l’uso di tali pietre (già utilizzate almeno dal 3000 a.C.) si riscontra massicciamente in glittica e gioielleria dal tardo IV – inizio III secolo a.C. fino al VII secolo d.C., accomunando Etruschi, Greci, Romani e Bizantini. Tanto nell’impero romano come in quello persiano, i granati erano lavorati principalmente a cabochon, o per ottenere gemme da intaglio, sigilli e camei per ornamenti personali. Celebrati per i magnifici colori e le proprietà di rifrazione della luce, tali cristalli erano indubbiamente caricati di valenze simboliche: in epoca tardo imperiale ad esempio l’uso delle pietre rosse insieme alle perle e agli smeraldi era riservato, così come i tessuti di porpora, per gli usi della casa imperiale.
Dal V secolo d.C. e fino all’età carolingia 18, per rispondere alla domanda dei ceti dirigenti nei Regni barbarici, si sviluppò un ulteriore utilizzo: il granato veniva tagliato in lamine sottili (anche meno di 10 mm) e in forme diverse, per adattarsi a piccole celle in metallo, in cloisonné sempre più complessi e di grande effetto visivo. Definita da generazioni di studiosi come arte barbarica par excellence, negli ultimi decenni nuovi dati, ulteriori ritrovamenti e il proseguire della ricerca scientifica hanno messo in discussione la correlazione univoca tra le migrazioni delle popolazioni germaniche orientali e la diffusione della tecnica cloisonné. Sempre più numerosi sono gli studiosi 19 che sostengono poi il ruolo di Ravenna, sin dal V secolo, come uno dei più importanti centri di produzione di gioielli a cloisonné nel Mediterraneo occidentale. Potrebbero provenire da Ravenna oltre ai gioielli di Domagnano 20, come già da tempo proposto, anche corredi più antichi, in particolare i magnifici gioielli della tomba di Childerico 21 e manufatti dalle tombe dei principi gepidi di Apahida 22 (Fig. 4).
Già alla metà del V secolo dunque sarebbero state presenti a Ravenna maestranze orafe di altissimo livello 23, aurifices legati alla corte – prima imperiale e poi regia – che realizzarono preziosi e vistosi status symbol per l’aristocrazia militare dell’Occidente, composta da una grande varietà etnica, “barbarica”, ma che risentiva decisamente di quella cultura imperiale romana che era stata per secoli capace di rinnovarsi integrando popoli e tradizioni diverse in un comune orizzonte, anche di carattere estetico.
- Sul ritrovamento si veda P. Novara, Storia delle scoperte archeologiche di Ravenna e Classe. I secoli XV-XIX, Ravenna 1998.[↩]
- Per una sintesi degli accadimenti si veda F. Cavani, La cosiddetta Corazza di Teoderico, in «Orizzonti. Rassegna di archeologia», XII (2011), pp. 143-162.[↩]
- La svolta interpretativa avvenne grazie al rinvenimento nel 1962, all’interno della tomba regale franca di Krefeld-Gellep, di due preziose decorazioni che, sebbene meno ricercate nella fattura, erano di forma e dimensioni simili a quella della Corazza. L’identificazione tipologica fu proposta da H. Vierck, Prunksättel aus Gellep und Ravenna, «Archäologisches Korrespondenzblatt», II (1972), pp. 213-317.[↩]
- La prima fotografia – attualmente nota – della corazza fu realizzata da Luigi Ricci intorno al 1882. Si veda sul tema P. Novara, Luigi e Corrado Ricci. Archeologia e monumentalità nella fotografia ravennate della seconda metà del XIX secolo, in «Quaderni Friulani di Archeologia», XXVI/1, Pasian di Prato 2017, pp. 123-134.[↩]
- Il furto del manufatto aureo, avvenuto nel 1924, è un episodio ancora ben noto e non solo a livello locale, tanto da divenire persino il pretesto narrativo di un recente romanzo giallo. Un evento espositivo a cura dell’Archivio di Stato di Ravenna ha permesso di conoscere documentazione inedita sulle indagini: https://asravenna.beniculturali.it/il-furto-della-corazza-di-teodorico.[↩]
- Secondo le voci popolari i gioielli furono smembrati e fusi: ipotesi accreditate anche a livello ministeriale considerano invece un possibile furto su commissione, che avrebbe perciò garantito la sopravvivenza del manufatto, pur sottraendolo alla pubblica fruizione.[↩]
- Sulla possibilità che si trattasse di una necropoli gota si veda M.G. Maioli, Nuovi dati sulle necropoli gote in Emilia-Romagna, «Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina», 36 (1989), pp. 227-252.[↩]
- V.P. Novara, Corrado Ricci e la corazza di Teodorico, in S. Simoni, Spigolando ad arte. Ricerche di storia dell’arte nel territorio ravennate, Ravenna 2013, pp. 115-117.[↩]
- Il Museo aveva sede negli spazi del monastero camaldolese di Classe Dentro, odierna Biblioteca Classense. Il furto avvenne dopo il trasferimento delle collezioni nella nuova sede del Museo, divenuto nel frattempo Nazionale, presso l’ex monastero benedettino di San Vitale. I pochi frammenti scampati al furto sono tutt’ora conservati presso il Museo Nazionale di Ravenna: sono stati recentemente riallestiti nella custodia ottocentesca, in una sala tematica dedicata alla Ravenna dei Goti.[↩]
- F. De Lasteyrie, On two Gold Ornaments of the time of Theodoric, preserved in the Museum at Ravenna, in «Archaeologia», 46(1), 1880, pp.237-240. L’articolo è citato in forma non corretta alla nota 18 in M.G. Maioli, Nuovi dati…, 1989, p. 235.[↩]
- Contesta in particole l’ipotesi sostenuta da Zabberoni che l’oggetto potesse essere appartenuto ad Odoacre. Cfr. G. Zabberoni, Relazione degli scavi fatti nel 1854 per l’allargamento del canale Corsini in Ravenna, Ravenna 1871.[↩]
- Per una precisa analisi del reperto si veda C. Cavallari, Sugli stili decorativi di alcuni oggetti dell’ornatus personale tra V e VII secolo dal territorio ravennate, in «Ravenna Studi e Ricerche», V/2 (1998), pp. 143-144.[↩]
- Molto accurato è il disegno acquerellato dei reperti, che ne illustra anche il retro, realizzato a corredo della relazione del 1855 predisposta dalla Deputazione incaricata di sovrintendere agli scavi (composta da F. Donati, don P. Pavirani e R. Massi). Il disegno non ebbe diffusione e l’originale è conservato insieme alle altre relazioni di analogo soggetto presso la Biblioteca Classense, Archivio Storico Comunale di Ravenna, Buste speciali, n. 123.[↩]
- J.-F. Luneau, F. de Lasteyrie, in Dictionnaire critique des historiens de l’art actifs en France de la Révolution à la Première Guerre mondiale, ed. on-line https://www.inha.fr/fr/ressources/publications/publications-numeriques/[↩]
- La scienza moderna riconosce in questo gruppo di minerali neosilicati 24 specie, molto diverse per composizione e anche per colore e translucenza, che suddivide in due serie isomorfe a seconda della composizione chimica. Nella serie detta delle piralspiti vi è l’almandino, la varietà più comune di colore rosso, conosciuta anche come granato orientale o rubino almandino: moderni esami gemmologici e analisi chimiche sui granati antichi hanno stabilito che la stragrande maggioranza delle pietre utilizzate nel mondo classico e altomedievale appartengono appunto alla serie delle piralspiti.[↩]
- Con il termine carbunculus si designava in latino qualsiasi pietra “lucida e vermiglia”. Di ‘carbonchi’ si parla nella Bibbia come di una delle pietre del Paradiso: il muro che circondava l’Eden secondo una tradizione ebraica era realizzato completamente in carbonchio. Anche nel Medioevo si riteneva che i fiumi paradisiaci trasportassero verso il nostro mondo gemme e altre pietre preziose.[↩]
- Cfr. N. Adams, The Garnet Millennium: the Role of Seal Stones in Garnet Studies in: C. Entwistle -N. Adams, Gems of Heaven: Recent Research on Engraved Gemstones in Late Antiquity c. AD 200-600, Londra 2011.[↩]
- Gli studiosi ritengono che il diminuire dell’utilizzo del granato all’inizio del medioevo sia da attribuire a varie cause, come l’interruzione dei canali di acquisizione, l’estinguersi dei giacimenti, la difficoltà negli approvvigionamenti o un diffuso cambiamento di gusto. Altre gemme di color rosso, come il rubino o la tormalina, aumenteranno progressivamente la loro popolarità nel medioevo e fino al Rinascimento.[↩]
- Tra i primi P. Périn, M. Kazanski, La tombe de Childeric, le Danube et la Méditerranée, in L. Verslype, Villes et campagnes en Neustrie. Société – Économie – Territoires – Christianisation. Actes des XXV Journées internationales d’archéologie mérovingienne, 2007 Montagnac, pp. 29-37.[↩]
- V. Bierbrauer, Archeologia degli Ostrogoti in Italia, in I Goti a San Marino. Il tesoro di Domagnano (catalogo della mostra), Milano 1995, pp. 34-47. Allo studio comparativo del Bierbrauer sugli oggetti cloisonné nell’Italia ostrogota dobbiamo il confronto delle particolarità stilistiche dei motivi geometrici, che accomunano i reperti di Domagnano, le guarnizioni della sella di Ravenna e la fibula di Testona.[↩]
- Anche l’incredibile corredo della tomba di Childerico I, rinvenuta nel 1653 a Tournai, fu funestato da un destino di criminale dispersione. Ancor più preziosi, a fronte del gran numero di oggetti scomparsi nel furto del 1831, sono l’opera e le tavole pubblicate da Jean-Jacques Chifflet, Anastasis Childerici I. Francorum regis, sive thesaurus sepulchralis Tornaci Nerviorum effosus, & commentario illustratus, pubblicata ad Anversa nel 1655. Per i granati di Tournai si veda F. Farges, Mineralogy of the Louvres Merovingian garnet cloisonné jewelry: Origins of the gems of the first kings of France, «American Mineralogist», Vol. 83, No. 3/4, pp. 323–330 (1998).[↩]
- G. Niculescu, R. Oanţă-Marghitu, M. Georgescu, On the Gold Adornments from Apahida, Proceedings of the 37th International Symposium on Archaeometry, a cura di I. Turbanti-Memmi, Berlin 2011, pp. 617-623.[↩]
- Cfr. M. Aimone, Nuovi dati sull’oreficeria a cloisonné in Italia fra V e VI secolo. Ricerche stilistiche, indagini tecniche, questioni cronologiche, in «Archeologia medievale vol. 38 (2011) pp. 459-506. Per un inquadramento dei commerci, della produzione artistica e dei rapporti tra Ravenna e i poli economici tra tarda antichità e medioevo, E. Cirelli, Il ruolo delle città portuali nelle dinamiche del commercio tra Adriatico e Ionio nell’alto Medioevo (V-IX secolo). «Hortus artium medievalium», Vol. 22 (2016), pp. 33-43 e Ravenna and the Traditions of Late Antique and Early Byzantine Craftsmanship: Labour, Culture, and the Economy, a cura di S. Cosentino, Berlin 2020.[↩]