Questioni di iconografia: Lelio Giliberto argentiere, la committenza gesuitica e una statua di Sant’Irene per Lecce
mauralucia.sorrone@unisalento.it
DOI: 10.7431/RIV28032023
Con questo contributo 1 si vuole aggiungere un tassello alle informazioni rese note in studi recenti sulle opere d’arte esistenti e non più esistenti, che due tra i maggiori ordini religiosi presenti a Lecce hanno contribuito a far giungere in città 2. Le notizie recuperate e lo studio che ne è seguito ci consentono infatti di conoscere meglio alcuni aspetti finora ignoti delle commissioni artistiche richieste a Napoli dagli ordini religiosi di Lecce. Nello specifico, inediti documenti recuperati da chi scrive, ci raccontano la commissione di due statue d’argento, raffiguranti San Francesco e Santa Irene. Entrambe le opere, oggi perdute, furono richieste a un importante artista, Lelio Giliberto, il quale le realizzerà per il Collegio dei Gesuiti di Lecce agli inizi del Seicento.
Il documento, che attesta la commissione della statua di un non meglio specificato San Francesco, ci fornisce, come diremo più avanti, poche informazioni utili alla ricostruzione della storia dei Gesuiti in città. La commissione della Santa Irene, invece, s’inserisce pienamente in quel clima di fervore religioso ricordato come “guerra delle reliquie” che infiammò la città in questi anni e di cui tanto è stato detto 3. Tra le testimonianze artistiche dei secoli XVII e XVIII, i manufatti in argento sono certamente tra quelli più danneggiati da dispersioni, furti e reimpieghi. Le notizie che giungono dai documenti solo in pochissime occasioni trovano riscontro nelle opere ancora esistenti, per cui, dal punto di vista strettamente legato ad una ricostruzione del patrimonio storico – artistico in Italia meridionale, oggi è solo intuibile quali furono i gusti dei committenti e la bravura tecnica degli artisti. Certo è che i documenti recuperati dagli archivi e le informazioni reperite nelle fonti dell’epoca ci consentono di monitorare qual era la situazione artistica di Napoli e dell’Italia meridionale. Ma perché il lavoro dello storico dell’arte non si limiti ad una, seppur utile, raccolta di fonti documentarie, secondo un monito di longhiana memoria è necessario tenere a mente l’importanza delle relazioni tra le opere d’arte e, tra queste e i territori. È infatti possibile ricostruire così una parte importante di ciò che è stato al fine di tutelarne la memoria, spesso ancora radicata nel culto e nella devozione. Come accennato poc’anzi, la richiesta della statua in argento raffigurante Santa Irene, s’inserisce nel clima di rinnovamento e fervida devozione che coinvolse anche le più importanti famiglie cittadine le quali, a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento, parteciparono alla controversia scegliendo di schierarsi o con i Gesuiti o con i Teatini 4. Questi ordini insieme agli Oratoriani e ai Cappuccini furono le organizzazioni religiose più influenti nate nella Chiesa della Controriforma, attive a Lecce 5 come a Napoli 6 e nella Roma dei Papi 7. Dunque alcune dinamiche, legate al culto e alla devozione dei santi, volute da tali ordini al fine di consolidare la loro presenza, sembrano ripetersi a Lecce come a Napoli e a Roma.
A Lecce, pomo della discordia fu proprio l’autenticità delle reliquie di Sant’Irene protettrice 8. La santa di Tessalonica aveva un legame antico con la città: a lei fu dedicata una chiesa già nel 1482, dopo che le si attribuì, sedici anni prima, lo scampato pericolo della peste 9. Ma come sappiamo, gli eventi che si svilupperanno dalla fine del XVI secolo contribuiranno certamente alla sua sostituzione come protettrice della città in favore di Sant’Oronzo, vescovo e martire, dopo un’altra epidemia nel 1656 10.
L’arrivo della Compagnia del Gesù a Lecce si data al 1574 11. Appena insidiatosi, il nuovo ordine di religiosi partecipò alla modifica dell’assetto urbanistico cittadino con la costruzione della nuova chiesa (Fig. 1), dedicata alla Madonna del Buon Consiglio – più conosciuta come chiesa del Gesù -, e della piazza antistante ad essa 12. I lavori di completamento dell’edificio terminarono intorno al primo decennio del Seicento e alla fine di questo secolo Giovan Battista Pacichelli nel suo viaggio del 1684 ebbe modo di ammirare lo splendore e la magnificenza di questa chiesa e degli altri edifici religiosi della città, tra cui anche la chiesa di Sant’Irene dei Padri Teatini (Fig. 2), la cui costruzione ebbe inizio nel 1591, cinque anni dopo che l’Ordine di San Gaetano Thiene si insediò in città, e che fu consacrata nel 1602 13.
Il culto di Sant’Irene da parte dei Gesuiti però nasce e si sviluppa poco dopo quello favorito dai Teatini nei riguardi della stessa santa 14, i quali già nel 1587 le dedicarono una prima chiesa, sostituita poi, come già ricordato, dall’edificio immenso e magnifico che ancora oggi vediamo. A sancire il diritto dei Padri Gesuiti di venerare la Santa di Tessalonica contribuì anche una lettera che il cardinale Antonio Gallo inviò a mons. Spina, il 27 luglio 1605. Tale documento rendeva nota l’approvazione da parte della Sacra Congregazione dei Riti e del pontefice Paolo V affinché nella Chiesa del Gesù si venerassero le reliquie della santa poste in una statua d’argento. Il nulla osta della Santa Sede, non sarebbe forse stato possibile due anni prima, quando i dissapori tra Gesuiti e Teatini raggiunsero il culmine necessitando dell’intervento del vescovo che, dopo i quaresimali del 1603 prese posizione per placare gli animi 15. A questo punto, entrambi gli ordini s’impegnarono così a favorire il culto della santa in diversi modi. Inoltre anche l’edificio patrocinato dall’ordine dei religiosi di San Gaetano Thiene fu dotato, tra le altre numerose reliquie, di alcune ossa della santa giunte similmente da Roma sempre nel 1605 16. Per questo motivo, il racconto del rinvenimento del corpo della santa a Roma, si legge sia nelle cronache gesuitiche sia in quelle legate all’ordine di San Gaetano Thiene. Per ciò che concerne il nostro studio, ci sembra utile ricordare che Giovan Battista del Tufo, nella Historia della religione de’ padri chierici regolari racconta nei dettagli il rinvenimento a Roma delle ossa della santa e l’invio di queste ai Teatini di Lecce, senza però fare alcun riferimento a una statua per contenere tali resti sacri 17. Ciò nonostante, come sappiamo dalla Relatione della Casa di Santa Irene scritta da padre Giovanni Maria Minioti intorno al 1649, la chiesa dei Teatini a Lecce fu dotata fin dai primi anni del Seicento di numerose reliquie e relativi busti – reliquario, pochi dei quali ancora esistenti: le quattro statue reliquario in legno dei santi protettori Irene, Oronzo, Giusto e Fortunato e altri busti lignei, tra cui quello di un’altra Santa Irene 18. Opere queste tutte di ambito napoletano, le prime quattro, attribuite da Pierluigi Leone de Castris allo scultore Aniello Stellato, gli altri busti avvicinati dallo stesso studioso alla bottega di Giovan Battista Gallone 19.
Come ci tramandano le fonti, la devozione per Irene vergine e martire crebbe a Lecce di giorno in giorno e allo stesso modo crebbero i miracoli e le intercessioni, ricordati in numerosi quadretti d’argento della santa, ex voto a lei dedicati che si potevano ammirare nell’omonima chiesa teatina 20. A rendere la situazione abbastanza animata, contribuì il ritrovamento del corpo di un’altra martire, Sant’Irenia, la quale fu eletta a protettrice della città di Lecce nel 1609, per volontà dei padri Teatini e dell’università cittadina. La controversia resterà ancora accesa per diversi anni, così come ancora per diverso tempo restò vivo il culto di santa Irenia 21.
In questo preciso frangente storico, come si è detto in precedenza, l’unica opera in argento ad oggi documentata e certamente giunta in città è la statua di Santa Irene richiesta a Napoli dai Gesuiti all’argentiere Lelio Giliberto 22.
A questo punto ci sembra necessaria una puntualizzazione: la ricerca condotta a Napoli da chi scrive, volta allo studio della committenza napoletana in Terra d’Otranto 23, oltre ai documenti relativi all’acquisto di una statua di Sant’Irene, come accennato all’inizio di questa trattazione, ha consentito di recuperare un atto di pagamento per una statua d’argento di San Francesco fatto allo stesso Lelio Giliberto sempre nel 1604 24. Fattore importante questo che, ancora una volta, attesta la necessità dei Gesuiti di preparare nel più breve tempo possibile gli spazi sacri al culto e alla devozione aprendo le porte della propria chiesa alla città. Le fonti consultate elencano tra le numerose reliquie in possesso dei gesuiti leccesi quelle di San Francesco Saverio e di San Francesco Borgia. Come ricordato da Regina Poso e Antonio Cassiano tra le statue d’argento disperse, di proprietà dei Gesuiti di Lecce, c’erano anche un Sant’Ignazio, un San Luigi Gonzaga e un San Francesco Saverio 25. La possibilità che la statua di San Francesco documentata a Lelio Giliberto sia proprio questa tra le altre citate dagli studiosi, è certamente una magra consolazione. Ad ogni modo, questo documento, messo in relazione con tutti gli altri riguardanti il nostro artista, ci consente di affermare che Lelio Giliberto fu tra gli artisti di fiducia della Compagnia del Gesù tra Napoli e le province 26.
Può essere però utile spingersi oltre e soffermarsi su gli atti di pagamento della statua argentea di Santa Irene. Le due cedole emesse dal Banco di Sant’Eligio nel marzo 1604 27, ci raccontano di questa importante commissione. Tali documenti, furono anticipati da un pagamento emesso dallo stesso banco, datato 19 febbraio 1604 e seguiti da un atto del Banco dello Spirito Santo datato 22 maggio del medesimo anno 28. Questi ultimi, resi noti di recente da Aldo Pinto 29, contribuiscono ad incrementare le conoscenze sulla commissione dell’opera. La causale infatti è sempre la statua d’argento della santa che Lelio Giliberto fa per il Collegio di Lecce.
Il fatto che la destinazione dell’opera indicata nei documenti sia il Collegio della città e non la Cappella intitolata alla santa, collocata nel transetto sinistro della chiesa dell’Ordine, potrebbe lasciar intendere che questa forse non era ancora stata terminata 30. È plausibile dunque immaginare quanto celermente i padri gesuiti si siano impegnati per raggiungere, nel più breve tempo possibile, il riconoscimento ufficiale del culto della martire, come testimonia Antonio Beatillo nel 1609:
«i Padri della Compagnia di Gesù, a consolazione della città e ornamento maggiore della loro Chiesa, determinarono erigervi una cappella col titolo di Santa Irene, Patrona della città nel più bello, e miglior modo, che si potesse, come cominciarono subito ad eseguirlo con tale affetto, diligenza, e fervore, che in breve tempo è riuscita la più bella di quante in simil materia ne sono finora per tutta la città di Lecce» 31.
Dunque, nella cappella suddetta era certamente custodita la statua d’argento della titolare, come testimonia Giulio Cesare Infantino, che trent’anni dopo la cronaca del Beatillo, nella sua Lecce Sacra scrive ciò che aveva visto:
«la cappella di Santa Irene à man destra dell’Altare maggiore con una bellissima statua d’argento, posta in alto con grate di ferro avanti, dentro la quale sta riposta la preziosa Reliquia della gloriosa Santa Irene nostra protettrice» 32.
Possiamo immaginare la solennità di questo spazio sacro destinato dunque al culto ufficiale della Santa Patrona di Lecce, che doveva plausibilmente replicare le numerose cappelle delle reliquie che in questi anni si realizzavano nelle chiese di Napoli e delle province 33.
Esigue sono le notizie certe sul nostro artista, forse originario di Solofra 34. Ricordato come orefice attivo tra il 1602 e il 1608 a Napoli e nelle province napoletane, alcuni documenti recuperati di recente, attestano a lui la realizzazione di alcuni reliquiari antropomorfi e oggetti destinati agli arredi sacri, quali calici, tabernacoli e candelieri. A Lelio Giliberto, inoltre, possono essere avvicinati a titolo di parentela, altri artisti, tutti attivi nei primi decenni del Seicento, ricordati come orefici, indoratori o argentieri, tra cui Giovanni Antonio indicato esplicitamente nei documenti come suo fratello 35. L’unica opera ad oggi esistente e documentata al nostro artista è il busto reliquiario di Santa Barbara (Fig. 3), conservato a Napoli nel Museo di Castel Nuovo 36. Datata al 1607, l’opera proviene dalla Basilica cittadina della Santissima Annunziata. Nei dettagli tecnici e nell’impostazione iconografica della figura, il manufatto è evidentemente il frutto di abilità artistiche e tecniche consolidate, che purtroppo non trovano possibilità di confronto con altre opere a lui riconducibili.
La figura della santa martire, realizzata in argento e rame dorato, è posta su una base lignea intagliata e dorata. Per ogni lato del basamento, si sviluppano, in tre riquadri, senza seguire un ordine cronologico, scene della vita di Barbara (Fig. 4), intervallate, negli angoli da tre stemmi, uno per lato.
Non è possibile stabilire con certezza se l’impostazione iconografia dell’opera sia da attribuire allo stesso Giliberto, ma questa è ad ogni modo una scelta alquanto interessante e innovativa se consideriamo l’anno in cui la statua è stata realizzata.
Il braccio destro della santa è appoggiato al simbolo iconografico della torre; nella stessa mano destra Barbara stringe la palma del martirio. La reliquia è posta nella calotta del capo, che si apre tramite una grata d’argento, la quale è decorata con motivi fitomorfi ripetuti nell’aureola in rame dorato. Dall’altra parte, sotto il braccio sinistro, la martire regge il libro del Vangelo. Attributo non presente solitamente nella sua iconografia, qui è inserito per accentuare la scelta cristiana, favorendo, dal punto di vista tecnico, l’equilibrio generale della figura. I capelli sono raccolti al centro da un nastro. L’abito è in rame dorato come il mantello che è appoggiato sulla spalla destra. Il chiaroscuro riesce perfettamente a rendere l’opera dinamica (Fig. 5), grazie ad alcune decorazioni realizzate a sbalzo e ad altre rese con la tecnica dell’incisione. Il panneggio è aderente al corpo, particolare reso grazie ad alcune pieghe più o meno profonde che lo attraversano. Alcune caratteristiche iconografiche sembrano anticipare le indicazioni che due anni dopo padre Antonio Beatillo metterà per iscritto nella biografia di Santa Irene, data alle stampe nel 1609 37.
E torniamo a Lecce. L’opera è la prima scritta dal gesuita che in futuro si dedicherà con più zelo e maggior cura alle agiografie di San Sabino e di San Nicola di Bari 38.
Beatillo, come spiega nella prefazione della sua opera, scrive con l’intento di mettere in ordine le notizie sulla vita di Irene, partendo da un manoscritto greco 39. Egli, nel primo libro racconta la vita terrena della santa, nel secondo, dedica la sua attenzione ai miracoli compiuti da Irene e la diffusione del culto. Inoltre, l’autore coglie l’occasione di chiarire quante e quali siano state le sante con il nome di Irene 40. È ovvio che il volume, edito a Napoli da Tarquinio Longo 41, riflette chiaramente la situazione storica di Lecce e il culto per Sant’Irene in città negli anni in cui fu pensato e poi dato alle stampe. Ciò che risulta particolarmente significativo per il nostro studio è certamente il capitolo undicesimo del libro secondo, dedicato al modo in cui si deve dipingere Sant’Irene 42. Ancora una volta, per Beatillo questa fu occasione per dare nuova vita all’antico culto caricandolo di nuova spiritualità al fine di ridisegnare l’identità cittadina sulle eroiche virtù di Irene 43.
Nelle raffigurazioni di Irene, per il gesuita, risulta fondamentale che:
«il viso, le mani e tutte le fattezze del corpo siano belle quanto è possibile, ma con ogni modestia, senza ricci, conci, nudità di braccia, ò di petto, e altre simili vanità, sia perché la Santa non usò mai nel suo corpo tali indegnità, sia perché il Concilio di Trento espressamente lo proibisce».
Gli artisti devono avere come obiettivo quello di realizzare l’immagine di un’ancella di Cristo, sul cui capo deve essere posta:
«una, ò tre corone, non già à modo di diadema reale, ma come una ghirlanda di fiori. Si dovrebbe coronare di corona non reale, ma celeste, la quale suole essere di vaghi, et odorosi fiori. […] Ma quando per ogni modo fosse bisognoso coronar la Santa di diadema fatta à foggia di corona real e per artificio particolare o di statua, o di altra pittura, si osservi allora, che in tal diadema vi sia per lo stesso fine alcuna figura ò di rose, o di gigli, o di altri somiglianti fiori 44».
E ancora:
«diciamo intorno alle vesti della nostra Santa, che han da esser lunghe sino a terra per l’onestà verginale. Basterà solo (come son d’ordinario l’immagini delle Sante Vergini, e Martiri) oltre la gonna lunga di sotto, pingervi anco di sopra un manto, che dalle spalle cali pur sino a terra; e siano per lo più di color bianco, e rosso dinotanti la Verginità, et il martirio, senza biasimar però chiunque per altro buon fine volesse anco servirsi di qualche altro colore. Né mi dispiacerebbe, che tal vestimenti si fregiassero d’oro et ornassero di stelle, o altri vaghi lavori 45».
Dunque, le indicazioni suggerite da Beatillo non sembrano essere una novità ma, come lui stesso chiaramente afferma, si ritrovano abitualmente nelle immagini di altre sante.
Effettivamente, confrontando il testo con le opere coeve, la corrispondenza è totale. Alcuna nudità di braccia, le vesti lunghe, il mantello che ricade sulla spalla e la corona decorata con motivi floreali caratterizzano la Santa Barbara di Napoli. E, curioso a dirsi, dopo aver ricordato i dissapori tra Teatini e Gesuiti, alcuni analoghi particolari si ritrovano anche nelle coeve sculture lignee di Sant’Irene commissionate a Napoli dai teatini di Lecce (Figg. 6 – 7).
Gli studi e le mostre degli ultimi decenni, hanno contribuito a quantificare, seppur solo in minima parte a causa di furti e dispersioni, quello che era il vasto patrimonio di manufatti in metallo che da Napoli giungeva negli angoli più remoti delle province. Cercare un riscontro tra il ricco patrimonio documentario, i luoghi, i committenti e gli artisti resta una questione di metodo preziosissima per avere memoria del passato. Inoltre, immaginare come dovevano apparire gli spazi sacri, ricchi di opere bellissime e decorazioni suntuose, ci consente di ricordare lo scopo principale ricercato dalla religiosità, quello cioè di mantenere vivo il legame tra uomo e divinità. Nel caso specifico della politica gesuitica, anche le disperse opere leccesi hanno certamente contribuito a mantenere vivo il monito dell’ordine: la grazia divina opera nell’animo umano, anche tramite la bellezza visiva.
ASBN: Archivio Storico del Banco di Napoli
APPENDICE DOCUMENTARIA
1.
10 febbraio 1604. Al padre rettore Antonio Lisio ducati 50. E per lui a Lelio Giliberto orefice et se li pagano in nome del padre Girolamo d’Alessandro a compimento di ducati 100 in conto di 300 per una statua di Santo Francesco che fa per il loro colleggio di Lecce.
(ASBN, Banco di Sant’Eligio, anno 1604, giornale copiapolizze di cassa, matr. 26, 10 febbraio).
2.
8 marzo 1604. A Michele della Reale ducati 54. E per lui al padre Buonomo del Collegio della Compagnia di Gesù per tre botti di vino. E per lui a Lelio Giliberto orefice cioè ducati 54 a compimento di ducati 90 in conto del prezzo di una statua di Santa Irene che fa per il loro collegio di Lecce et ducati 4 per conto di un calice.
(ASBN, Banco di Sant’Eligio, anno 1604, giornale copiapolizze di cassa, matr. 26, 8 marzo).
3.
23 marzo 1604. Ad Antonio Lisio rettore ducati 50. Et per lui a Lelio Giliberto orefice a compimento di ducati 220 in conto di una statua di Santa Erina che fa per servizio del loro collegio di Lecce.
(ASBN, Banco di Sant’Eligio, anno 1604, giornale copiapolizze di cassa, matr. 25, 23 marzo).
4.
19 febbraio 1604. Al Padre Rettore Antonio Lisio ducati cinquanta, E per lui a Lelio Giliberto orefice et se li pagano in nome del padre Girolamo d’Alessandro a compimento de ducati cento in conto di trecento per una statua di Santa Irene che fa per il loro Collegio di lecce a lui contanti ducati 50.
(ASBN, Banco di S. Eligio, anno 1604, giornale copiapolizze di cassa, matr. 26; pubblicato in: A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e dintorni, 1, artisti e artigiani, Università degli Studi di Napoli Federico II, aggiornata al 31.12.2022 http://www.fedoa.unina.it/9622/, p. 3671).
5.
22 maggio 1604. A Padre Marc’Antonio Bonori della Compagnia del Gesù ducati cinquanta. Et per lui a Lelio Giliberto orefice, dissero a conto de una statua per il loro Collegio di lecce et per esso a Geronimo De Benedetto per altrettanti a lui contanti ducati 50.
(ASBN, Banco dello Spirito Santo, anno 1604, giornale copiapolizze di cassa, matr. 35, 22 maggio; pubblicato in: A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e dintorni, 1, artisti e artigiani, Università degli Studi di Napoli Federico II, aggiornata al 31.12.2022 http://www.fedoa.unina.it/9622/, p. 3671).
- Ad Antonio, grata. Questo contributo non sarebbe stato lo stesso senza la disponibilità della Dott.ssa Alessandra Topo, di Francesco Battaglia e del personale della Direzione Regionali Musei Campania – Fototeca.[↩]
- Tra i più recenti contributi, quello di Nicola Cleopazzo apporta nuove informazioni sulla committenza artistica teatina, nello specifico alcuni documenti recuperati dallo studioso consentono di riconoscere in Giovanni Antonio Guerra e Marcantonio Ferraro gli autori del distrutto tabernacolo ligneo della chiesa teatina leccese di Sant’Irene e del coro dell’oratorio del SS. Crocifisso dei Cavalieri, cfr. N. Cleopazzo, L’arrivo dei Teatini a Lecce un sodalizio artistico a servizio dell’ordine, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, 69, 2, pp. 335 – 360.[↩]
- Per un’analisi accurata della questione si rimanda a: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale: terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 288 – 291; M. R. Tamblè, Strategie cultuali e controllo sociale in Terra d’Otranto nel Seicento, in Società, congiunture demografiche e religiosità in Terra d’Otranto nel XVII secolo, a cura di B. Pellegrino – M. Spedicato, Galatina 1990, pp. 399 – 440, nello specifico le pp. 405 – 412; M. Cazzato, Fonti per la storia di una città barocca: i Teatini leccesi dalla fondazione all’inchiesta innocenziana (1649), Galatina 1992, pp. 14 – 17; M. R. Tamblè, Santi patroni e mutamenti sociali a Lecce nella svolta di metà Seicento, in Itinerari di Ricerca Storica, I, 1987, pp. 55 – 106, pp. 56 – 63; M. Spedicato, Culti di santi e percorsi di santità nel Mezzogiorno medievale e moderno, Galatina 2007, pp. 59 – 62; V. Cazzato – M. Fagiolo, Lecce: architettura e storia urbana, Galatina 2013, p. 53 e p. 182.[↩]
- M. Spedicato, La città e la chiesa, in Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, a cura di B. Pellegrino, Roma – Bari 1996, pp. 87 – 281, pp. 116 – 117.[↩]
- A partire dagli anni che seguono il Concilio di Trento, Lecce fu investita da un vero e proprio rinnovamento delle istituzioni religiose, s’insediano nuovi ordini religiosi, tra cui Gesuiti e Teatini, ma si rinnovano e rafforzano la loro presenza in città anche gli ordini religiosi di vecchia data, cfr. Ibidem, La città e la chiesa…, 1996, in particolare si veda il paragrafo: L’età del tridentino: risveglio istituzionale e fervore religioso, pp. 113 – 136.[↩]
- Per uno studio approfondito del parallelismo nella committenza artistica di Gesuiti e Teatini tra Lecce e Napoli, cfr. N. Cleopazzo, L’arrivo dei Teatini a Lecce…, cit. qui n. 1; D. Ambrasi, Religione e società dal Medioevo al Seicento, in Storia e civiltà della Campania. Il Rinascimento e l’età barocca, a cura d G. Pugliese Carratelli, Napoli 1994, pp. 387 – 412.[↩]
- F. Haskell, Gli ordini religiosi, in Mecenati e pittori. L’arte e la società italiana nell’epoca barocca, Torino 2020, pp. 91 – 133, pp. 91 – 94.[↩]
- M. Morales, Martín, Sant’Irene: la guerra delle reliquie, in Archivio Storico della Pontificia Università Gregoriana, 18 novembre 2018, url:https://archiviopug.org/2018/11/06/santirene-la-guerra-delle-reliquie/[↩]
- G. C. Infantino, Lecce Sacra, con introduzione e indici a cura di P. De Leo, Bologna 2005, p. 188; F. Tarantini, Il culto di Santa Irene a Lecce, in “Studi storici meridionali”, 1, 1989, pp. 144 – 154.[↩]
- M. Spedicato, La città e la chiesa…, 1996, pp. 135 – 136.[↩]
- I Gesuiti nel Salento: appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del 3° centenario della morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce, (1616-1916), a cura di Giovanni Barrella, Lecce 1918; B. Pellegrino, I collegi gesuitici e la strategia della Compagnia nel Regno di Napoli tra ‘500 e ‘600, in Itinerari di Ricerca Storica, X, 1996, Galatina 1997, pp. 97 – 112, pp. 108 – 110. Sui modelli architettonici veicolati degli ordini religiosi a Lecce e la relazione con la tradizione locale: M. Manieri Elia, Barocco leccese, Milano: Electa 1989, in particolare pp. 19 – 41; A. Cassiano, I Gesuiti in Puglia, in La Puglia, il manierismo, 125 – 130; P. Palumbo, Storia di Lecce, ristampa a cura di M. Paone, Galatina 2002, pp. 234 – 236.[↩]
- Istoria della Compagnia di Giesu appartenete al Regno di Napoli descritta da Francesco Schinosi della medesima Compagnia, nella Stampa di M. L. Mutio 1706 – 1711, 2 voll., II, 1711.[↩]
- G. B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per la Puglia (1682 – 1687), a cura di E. Carriero, ed. digitali del Cisva 2010: viaggio del 1684, 44: «Andai a veder la bellissima e real città di Lecce, ne’ Salentini, fondata da Malennio, re loro, ed accresciuta da Littio Idomeneo, conferme stima il Padre Antonio Beatillo, nella Vita di Sant’Irene, e il Padre De Anna in quella del venerabile Padre Bernardino Realino. Ha ella tre miglia di giro, con vie larghe e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pietra, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora a guisa di legno con pialla. Non sa invidiar Napoli nello splendore e magnificenza delle chiese e de’ chiostri di tutti gli ordini, col sontuoso collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione, e il tempio vaghissimo de’ Teatini a Sant’Irene protettrice.»; viaggio del 1686, 63: «Ogni chiesa ha la facciata, ed alcune bellissima, di pietra con le statue e cornici alla romana. Quella di Santa Irene, protettrice della città, offiziata da Padri Teatini, è maestosa, con le cappelle sfondate, in una delle quali presso la porta tre tele di San Carlo Borromeo e, nella croce alla sinistra, San Gaetano, dipinti a Parma da un loro laico, ha un cornicione largo, ma il tetto desidera il volto o l’soffitto»; G. C. Infantino, Lecce Sacra…, 2005, pp. 31 – 35; P. Palumbo, Storia di Lecce…, 2002, p. 237.[↩]
- M. R. Tamblè, Strategie cultuali e controllo sociale…, 1990, p. 407.[↩]
- M. Spedicato, La città e la chiesa…, 1996, pp. 125 – 127. Id., Episcopato e processi di tridentinizzazione a Lecce nel XVII secolo, Galatina 1990, pp. 229 – 276; M. Paone, Lecce al tempo dei vescovi Scipione Spina e Luigi Pappacoda, in La lupa sotto il leccio, Galatina 1995, pp. 170 – 206.[↩]
- Historia della religione de’ padri chierici regolari in cui si contiene la fondatione e progresso di lei insino a quest’anno MDCIX raccolta, posta in luce da Monsignor D. Gio. Battista del Tufo, vescovo d’Acerra, dell’istessa religione, Roma: appresso Guglielmo Facciotto e Stefano Paolini 1609, pp. 225 – 226; Paone, Michele, Notizie storico artistiche sulla chiesa di S. Irene, in Studi teatini, “La Zagaglia”, 25, 1965, pp. 57 – 59.[↩]
- Per lungo tempo si è pensato ad una statua d’argento per contenere le reliquie della santa, commissionata dai padri Teatini, Cfr. P. Leone de Castris, Sculture in legno di primo Seicento in Terra d’Otranto, tra produzione locale e importazioni da Napoli, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, catalogo della mostra di Lecce, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma 2007, pp. 19 – 47, ma nella fonte a cui si fa riferimento, si racconta il rinvenimento delle ossa di Santa Erina nel cimitero di Callisto a Roma e l’invio di queste a Lecce, nel 1605, dopo il permesso concesso da papa Paolo V, senza citare alcuna statua reliquiario (cfr. Historia della religione de’ padri chierici regolari…, 1609, si veda qui nota n. 15).[↩]
- G. M. Minioti, Relatione della Casa di S.ta Irene di Lecce et suoi progressi, Roma, Archivio Generale dei Padri Teatini, fasc. 684/1, 1649 ca., si veda: M. Cazzato, Fonti per la storia di una città barocca: i teatini leccesi dalla fondazione (1586) all’inchiesta innocenziana (1649), Galatina 1992, p. 24.[↩]
- P. Leone de Castris, Sculture in legno di primo Seicento in Terra d’Otranto, tra produzione locale e importazioni da Napoli, in Sculture di età barocca…, 2007; Id., scheda n. 6, Statue – reliquiario dei Santi Irene, Giusto, Oronzo e Fortunato, in Ivi, pp. 162 – 165; Id., scheda n. 8, Busti – reliquiario di Sant’Irene; di un’altra Santa e di tre Santi martiri, in Ivi, pp. 168 – 171.[↩]
- , mentre il gesuita padre Bernardino Realino si attivò distribuendo agli infermi bambagie che essendo state in contatto con le reliquie, consentivano la guarigione ((M. Morales, Martín, Sant’Irene: la guerra delle reliquie…, 2018; G. Falco, Una chiave, un cipresso e la bambagia prodigiosa di sant’Irene, in “Quotidiano di Puglia”, Lecce Svelata, pubblicazione online https://www.quotidianodipuglia.it/speciali/lecce_svelata/lecce_svelata_chiave_cipresso_sant_irene-7575944.html.[↩]
- Il culto della santa è testimoniato anche da un’incisione datata 1634 dedicata da Pompeo Renzo alle due sante protettrici di Lecce, cfr. M. Paone, Incisori leccesi del Seicento, Galatina 1974, p. 17 e tav. V; la questione delle due sante protettrici di Lecce è approfondita da Maria Rosaria Tamblè, cfr. M. R. Tamblè, Strategie cultuali e controllo sociale…, 1990, pp. 405 – 411.[↩]
- Appendice doc. 2, 3, 4.[↩]
- M. L. Sorrone, Scultura napoletana in Terra d’Otranto. Il legno, il metallo e il marmo nelle scelte della committenza (sec. XVII e XVIII), Università del Salento, tesi di dottorato in Arti, Storia e Territorio dell’Italia nei rapporti con l’Europa e i Paesi del Mediterraneo, XXVIII ciclo, a.a. 2015 – 2016, tutor prof. Raffale Casciaro.[↩]
- Appendice doc. 1.[↩]
- A. Cassiano – R. Poso, Il fervore degli arredi, in Storia di Lecce…, 1996, pp. 631 – 669, 641 – 643; A. Cassiano – M. Bozzi Corso, Sculture d’argento, in Sculture di età barocca…, 2007, pp. 143 – 148.[↩]
- Per la bibliografia utile si veda qui la nota n. 2.[↩]
- Appendice doc. 2 e 3.[↩]
- Appendice doc. 4 e 5.[↩]
- A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e dintorni, 1, artisti e artigiani, Università degli Studi di Napoli Federico II, aggiornata al 31.12.2022 http://www.fedoa.unina.it/9622/.[↩]
- G. C. Infantino, Lecce Sacra…, 2005, p. 170.[↩]
- Si veda: Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, pp. 375 – 376. A legittimare ciò, il Beatillo cita la “autentica lettera” scritta dalla Sacra Congregazione dei Riti e inviata al vescovo di Lecce il 27 luglio 1605, coeva a quella che da Roma giunse alla casa leccese dei Teatini per l’approvazione delle reliquie possedute da questi ultimi.[↩]
- G. C. Infantino, Lecce sacra…, 2005, p. 171.[↩]
- Relativamente al fasto e la ricchezza degli edifici sacri, ricordiamo la disputa cui prese parte attiva il cardinale Roberto Bellarmino, il quale evidenziò il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa che possono essere percepite e trasmesse anche con gli aspetti esteriori e il fasto decorativo, cfr. F. Motta, Bellarmino: una teologia politica della Controriforma, Brescia 2005.[↩]
- Lelio Giliberto, scheda biografica in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984, 2 voll., II, p. 304.[↩]
- A. Pinto, Raccolta notizie…, 2022, pp. 3670 – 3671.[↩]
- Santa Barbara, scheda di catalogo in Civiltà del Seicento a Napoli…, 1984, II, pp. 308 – 309; I. Maietta, Il Museo Civico. Le arti decorative, in Castel Nuovo. Il Museo Civico, a cura P. Leone de Castris, Napoli 1990, pp. 207 – 208; Santa Barbara, scheda di catalogo in Ivi, pp. 212 – 213; Santa Barbara, scheda n. 00297674 del Catalogo Generale dei Beni Culturali, https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1500297674-0.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609.[↩]
- Historia della vita, miracoli, traslazione, e gloria dell’illustrissimo confessore di Christo S. Nicolò arcivescovo di Mira, e patrono della città di Bari composta dal M.R.P. Antonio Beatillo Barese teologo della compagnia di Gesù, in Napoli nella Stamperia degli eredi di Tarquinio Longo 1620. Nel 1637 egli darà alle stampe la storia civile della città di Bari: Historia di Bari principal città della Puglia nel Regno di Napoli. Opra del padre Antonio Beatillo barese della Compagnia di Gesù, nella Stamperia di Francesco Savio stampatore della corte arcivescovile, 1637.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, p. 2.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, p. 387.[↩]
- La stamperia di Tarquinio Longo fu attiva a Napoli dalla fine del XVI secolo ed ebbe un rapporto privilegiato con la Compagnia del Gesù, cfr. S. Sbordone, Editori e tipografi a Napoli nel ‘600, Napoli 1990, 7, pp. 60 – 63.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, pp. 376 – 386.[↩]
- Allo stesso modo l’ordine riuscirà ad incentivare altri culti in città come a Napoli e a Palermo, cfr. E. Novi Chiavarria, Sacro, pubblico e privato: donne nei secoli XV – XVIII, Napoli 2007, in particolare pp. 21 – 27.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, pp. 375 –376.[↩]
- Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene…, 1609, p. 383.[↩]