Il presbiterio dell’oratorio di Santa Cita: echi reniani nella Giuditta di Giacomo Serpotta
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DOI: 10.7431/RIV28072023
Entrando all’interno dell’oratorio di Santa Cita si rimane inevitabilmente colpiti dal candore dell’articolato sistema decorativo in stucco che si mostra in tutta la sua vitalità sulle pareti dell’aula. La decorazione dell’oratorio, appartenente ad una delle compagnie più prestigiose della città, la Compagnia del Rosario di Santa Cita nata nel 1570 dalla scissione di un gruppo di confrati della Compagnia del Rosario in San Domenico, doveva essere all’altezza dell’autorevole committenza e soprattutto avere lo scopo precipuo di esaltare la Madonna del Rosario attraverso la rappresentazione dei relativi misteri 1. La paternità dell’apparato decorativo dell’oratorio fu a lungo discussa, in particolare agli inizi del Novecento. La realizzazione in due fasi dell’aula e del presbiterio poneva infatti delle controversie circa lo scarto stilistico tra le due parti. Le differenze tra presbiterio e aula (che si ritenevano realizzate contestualmente tra il 1717 e il 1718) avevano spinto parte della critica a ritenere quest’ultima di generica bottega serpottiana o addirittura di altri stuccatori. Filippo Meli, tuttavia, non solo confermò quanto già aveva affermato il Mongitore circa l’attribuzione dell’opera a Giacomo Serpotta, ma stabilì una differenza cronologica tra le due zone 2. Sulla controfacciata il complesso macchinario decorativo approntato dallo stuccatore trova il suo punto più alto, con tutti quei putti intenti a distendere l’enorme e pesante drappo su cui sono adagiati i famosi teatrini raffiguranti in questo caso i Misteri Gloriosi 3. Elemento cardine dell’intera controfacciata è il rilievo raffigurante la Battaglia di Lepanto, la cui collocazione, al centro e proprio in corrispondenza del seggio dei Superiori della compagnia, non fa altro che sottolineare l’importanza dell’episodio come centro semantico di tutto l’apparato: Il successo di Lepanto nel 1571 sin da subito si configurò, nella propaganda politica e religiosa del Cattolicesimo, come episodio emblematico non solo del trionfo dell’Europa cristiana, ma soprattutto della benevola intercessione della Madonna del Rosario. Tale retorica ritrova un contesto di generale ottimismo durante gli anni del pontificato di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689): Il 1683 è infatti l’anno della sconfitta dell’armata turca che assediava Vienna, evento che a livello simbolico viene recepito, a distanza di più di un secolo, come un parallelo della vittoria di Lepanto. I confrati di Santa Cita avrebbero così rinvigorito il ricordo della protezione accordata dalla Vergine del Rosario alle armate cristiane 4. Il trionfo d’armi legato a Lepanto trova ulteriore arricchimento grazie ad una serie di elementi (Bandiere, armi, armature ed elmi) che ripropongono il tema iconografico di ascendenza classica della panoplia 5 alla cui estremità stanno seduti due giovinetti: quello sulla sinistra poggia la mano su un elmo, quello sulla destra, con lo sguardo chino verso il basso, poggia invece la sua mano su un turbante. Cristiano il primo, e musulmano il secondo: immagini allegoriche, dunque, della vittoria cristiana sugli Infedeli. Sulle pareti laterali altri teatrini accolgono le scene relative ai Misteri Gaudiosi e Dolorosi 6. Sopra ognuno di essi si adagiano due figure allegoriche e tre putti che partecipano attivamente alla rappresentazione che va in scena sotto di loro. I putti “commentano” gli episodi sacri con i loro gesti o li “interpretano” a modo loro, si sorprendono talvolta per quello che viene raccontato o si spaventano, altre volte ancora sono del tutto indifferenti, indaffarati come sono nei loro scherzi e giochi infantili 7. La loro tenerezza e spontaneità trasfigurano così in un senso di generale gioia e leggerezza il messaggio dei singoli misteri. Compaiono poi qui le Allegorie, destinate, come i putti, a diventare anch’esse cifra distintiva degli oratori serpottiani. Sedute alla base delle lesene delle finestre, costituiscono insieme ai putti una schiera ininterrotta di sculture per l’intera lunghezza delle pareti 8. Ognuna di esse significativamente e simbolicamente legata all’episodio del mistero sottostante. È la primavera del 1686 quando Giacomo Serpotta dà inizio ai lavori, che si concluderanno nei primi mesi del 1689 9. È da collocarsi invece tra il 1717 e il 1718 la decorazione del presbiterio dell’oratorio. Datazione confermata dal documento, rintracciato da Enrico Mauceri e ripubblicato da Filippo Meli, secondo il quale lo stuccatore si impegna a «fare tutto il stucco del Cappellone, cioè affacciata di fuori dov’è l’arco maggiore, l’affacciata di dentro, li lati e dammuso giusta la forma del disegno fatto da detto di Serpotta», probabilmente non totalmente ex novo poiché nel documento in questione si specifica che alcune parti, come «uno dell’Angeli a lato di detti letterini debbano restare per essere mano del detto di Serpotta» 10 forse perché già realizzati durante la prima fase dei lavori tra il 1686 e il 1689. Siamo negli anni in cui era da poco stata terminata la decorazione del vicino oratorio di San Domenico, all’interno del quale alcune delle Allegorie si presentavano come vere e proprie dame abbigliate secondo la più aggiornata moda del tempo. Pizzi, merletti, mantelli, copricapi e gioielli sono il “costume da scena” di queste nobili figure che, dalla ribalta delle nicchie, «si offrono come attrici di uno spettacolo a chi sia al centro dell’aula […] apparse all’improvviso sulla scena multipla e, per un lampo magico […] bloccate dal direttore di scena» 11. Con i loro abiti alla moda, le Allegorie di San Domenico sono dunque espressione di quell’eleganza e di quell’ostentazione per il lusso che prelude ad un gusto settecentesco più schiettamente rococò. Lo stesso piglio aristocratico e sofisticato lo si ritrova nelle figure all’ingresso del presbiterio dell’oratorio di Santa Cita. Le due figure bibliche di Ester e Giuditta «eleganti dame di corte quasi sopraffatte da drappeggi e strascichi […]» 12 che fiancheggiano l’ingresso del presbiterio mostrano chiaramente il loro conformarsi agli atteggiamenti aristocratici, eleganti e raffinati che erano propri delle Allegorie in San Domenico. Le affinità sono notevoli soprattutto con le figure della Sapienza e della Giustizia, collocate anch’esse all’ingresso del presbiterio del vicino oratorio. Spicca, in particolare, la figura di Giuditta (Fig. 1). Questa, vestita sfarzosamente, con un raffinato copricapo piumato, rivolge lo sguardo verso l’alto. Con il braccio sinistro raccoglie con baldanza la sua veste all’altezza dell’anca, mentre con il destro impugna ancora la scimitarra rivolta verso il basso. Proprio ai piedi di Giuditta troviamo la testa mozzata di Oloferne che la donna, con una certa insolenza, spinge con il suo piede, quasi che la sua preoccupazione fosse più rivolta in realtà a ostentare l’elegante calzatura che fa capolino dal panneggio. Nel momento in cui Serpotta si trova a lavorare alla decorazione del presbiterio dell’oratorio, la presenza sull’altare della pala di Maratti, commissionata nel 1689 e collocata nel 1695 13, e il generale orientamento al Classicismo barocco già manifestato in altre occasioni dall’artista potrebbero aver influenzato in un certo senso la scelta del modello utilizzato per la figura di Giuditta 14. Il prototipo della figura serpottiana sarebbe infatti da individuare in un’opera di un altro grande esponente del Classicismo barocco, il bolognese Guido Reni, che raffigura proprio la stessa eroina biblica. Ad essere più precisi, il riferimento non è direttamente all’opera di Reni ma troverebbe una più plausibile mediazione nell’incisione che ne trae il francese Sébastien Vouillemont nel 1638, derivata a sua volta da una copia dell’originale reniano (Fig. 2). La probabile commissione della Giuditta con la testa di Oloferne di Reni sarebbe da ascrivere al cardinale, mecenate e collezionista, Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XI (1621-1623). Costui trascorse gli ultimi anni della sua vita a Bologna dove si trovava, tra il 1627 e il 1631, il cardinale e legato pontificio Bernardino Spada. Il cardinale Spada era un collezionista di opere dello stesso Reni, anche sotto forma di copie, e probabilmente si deve a lui la commissione di una coppia di tele, conservate presso la Galleria Spada, copie della Morte di Lucrezia e della Giuditta con la testa di Oloferne 15. Da queste due copie Sébastien Vouillemont avrebbe tratto nel 1638 due incisioni 16, una delle quali si ritiene qui presa a modello da Serpotta per la realizzazione della sua Giuditta. Le somiglianze, nonostante qualche lieve adattamento, sono palesi. Lo sguardo rivolto verso l’alto e il collo tornito che accompagna il movimento della testa, il braccio destro teso a tenere la scimitarra puntata verso il basso, gli ampi sbuffi delle maniche e il modo con cui il panneggio della veste ricade sul corpo e sui piedi dell’eroina biblica, sono tutti tratti che accomunano l’opera dello stuccatore all’incisione di matrice reniana. Risultano tuttavia evidenti alcuni accorgimenti che distaccano l’opera dello stuccatore dall’incisione (si veda ad esempio il copricapo piumato o le eleganti calzature conformi alla moda del tempo). Questi servono però ad “attualizzare” e ricondurre al proprio stile il modello di riferimento. Uno stesso approccio, d’altra parte, era stato adottato per la recente decorazione dell’oratorio di San Domenico, all’interno della quale venivano riplasmati in maniera analoga i riferimenti all’antico che erano stati presi come punto di partenza per la genesi di alcune delle allegorie. Come già nell’oratorio di Santa Cita e ancor di più in quello di San Lorenzo, le indicazioni relative all’elaborazione delle varie figure allegoriche dell’oratorio di San Domenico sono da rintracciare nel testo dell’Iconologia di Cesare Ripa. Tuttavia, l’estro di Serpotta fece sì che le indicazioni del testo servissero semplicemente come traccia generale per una rielaborazione del tutto personale. Le matrici culturali che caratterizzano l’iconografia delle varie figure allegoriche dell’oratorio di San Lorenzo, e in particolare nell’oratorio di San Domenico, si muovono su due linee. La prima legata ad una estetica ispirata al gusto corrente, la seconda trova invece la sua linfa vitale nel riferimento alla statuaria antica. Linee non sempre parallele, ma destinate invece a mescolarsi con risultati del tutto originali. Proprio questo aspetto si rivela di particolare importanza. Innanzitutto, perché il saper combinare il dato più caratteristico del reale (risultato di un attento ed evidente sguardo al vero) con un meditato e accorto riferimento ai moduli classici, colloca Serpotta a pieno titolo nell’ambito della dottrina classicista di stampo belloriano. In secondo luogo, questa raffinata contaminazione tra il gusto per l’antico e il dato reale diventa parte integrante dello stile dell’artista a tal punto che i diretti riferimenti all’antichità possono essere sapientemente dissimulati in un elegante e sottile gioco combinatorio tra fonti e spunti diversi 17. Per ritornare alla Giuditta di Santa Cita, le varianti rispetto alla stampa potrebbero essere anche il risultato di una commistione di più immagini, secondo una prassi tipica del modus operandi dell’artista. Si consideri a questo punto la rappresentazione che dello stesso soggetto fa il messinese Filippo Tancredi nella chiesa della Gancia intorno al 1706 (Fig. 3), tra l’altro in associazione anche in quel caso con l’altro soggetto biblico che ha come protagonista Ester, come avviene con le figure in Santa Cita 18. Il particolare del copricapo della scultura serpottiana, ad esempio, sembra rievocare proprio lo stesso dettaglio presente nell’affresco di Tancredi. Analogo poi il modo con cui il braccio destro ricade verso il basso accompagnato dall’ampio gonfiarsi della manica. I modelli e gli stimoli che Serpotta seppe cogliere nel corso della sua carriera sono innumerevoli, e in questo caso, come in tutti gli altri, sarebbe difficile stabilire con assoluta certezza quando e in che maniera l’artista possa essere venuto a conoscenza della fonte figurativa individuata che poi autonomamente rielabora e plasma nella forma che si presenta ai nostri occhi 19. D’altra parte, materiale come quello delle stampe circolava seguendo le strade più diverse. In ogni caso, però, un riferimento iconografico come quello individuato non solo conferma quanto il capillare sguardo di Serpotta fosse attento a carpire quegli stimoli e quelle sollecitazioni più funzionali alla definizione della singola opera, ma si dimostra inoltre conforme al gusto, del Classicismo in questo caso, cui era improntata la cultura artistica del tempo a Palermo e non solo.
- Sulle vicende della fondazione, della composizione sociale della compagnia del SS. Rosario e della sua collocazione nel contesto palermitano si vedano P. Palazzotto, L’Oratorio del SS. Rosario in S Cita Storia e Arte in G. Pecoraro, P. Palazzotto, C. Scordato, Oratorio del Rosario in Santa Cita, Palermo 1999; P. Palazzotto, Giacomo Serpotta. Gli oratori di Palermo. Guida storico artistica, Palermo 2016; o il più recente contributo P. Palazzotto, Fluidità sociale e ambizione: la compagnia del SS. Rosario in S. Zita di Palermo committente d’arte tra Giacomo Serpotta e Carlo Maratti nel XVII secolo in G. Bongiovanni, P.Palazzotto, M. Sebastianelli, Carlo Maratti la Madonna del Rosario e Santi, Palermo 2021, pp. 41-55. La scelta di decorare interamente in stucco l’oratorio, osserva Palazzotto, si inserisce con coerenza con quanto già fatto o fosse in fase di realizzazione negli altri oratori palermitani: la scelta era infatti quella di allestire una quadreria sulla scorta di oratori come quello di S. Stefano al Monte di Pietà o il vicino e “rivale” oratorio di San Domenico, oppure dare prevalenza alla decorazione in stucco come era stato fatto negli oratori del Carminello, di San Mercurio, della Carità in S. Bartolomeo e della compagnia della Pace. Peraltro, negli ultimi tre intervenne, a ridosso dei lavori in Santa Cita, lo stesso Giacomo.[↩]
- F. Meli, Giacomo Serpotta. La vita e le opere, Palermo 1934, pp. 142-145. La difficoltà nel dirimere la questione era aggravata dal fatto che il superiore della Compagnia del periodo impediva la consultazione degli archivi temendo che un’eventuale attribuzione ad un altro artista avrebbe compromesso il prestigio dell’oratorio.[↩]
- Nei documenti rintracciati da Meli non si nomina nessun architetto che indirizzasse Serpotta nella gestione dei lavori in Santa Cita. Garstang, tuttavia, suppone inizialmente la presenza di Giacomo Amato, per poi rivedere questa ipotesi e chiamare in causa invece Paolo Amato, cfr. Garstang, Giacomo Serpotta e gli stuccatori di Palermo, Palermo 1990, p. 295. Elemento tipico della ricerca espressiva di quest’ultimo è la cosiddetta “pietrificazione dell’effimero”, ossia il voler riproporre in forme solide le componenti tipiche dell’architettura effimera, cfr. S. Piazza, I colori del Barocco. Architettura e decorazione in marmi policromi nella Sicilia del Seicento, Palermo 2007, p. 63. Una collaborazione con Paolo Amato si era in effetti già verificata nel 1681, quando Giacomo e il fratello Giuseppe realizzarono la perduta decorazione in stucco del presbiterio di San Giorgio dei Genovesi, cfr. B. Fasone, Gli stucchi serpottiani in S. Giorgio dei Genovesi in Palermo: un documento inedito, in “BCA Sicilia”, ns. a.a. III-IV, 1993-1994, pp. 56-64. Il repertorio figurativo prevedeva statue e puttini, virtù e angeli e soprattutto una “cortina” su cui collocare l’immagine del Crocifisso. Dunque, anche in questo caso, una finta coltre di stoffa così come in Santa Cita. Palazzotto, oltre a citare tutta una serie di casi di drappi scultorei, propone come riferimento stringente per la coltre dell’oratorio l’addobbo della Cattedrale per le esequie di Filippo IV nel 1666, il cui autore fu proprio Paolo Amato, cfr. P. Palazzotto, Tradizione e rinnovamento nei primi apparati decorativi barocchi in stucco di Giacomo Serpotta a Palermo (1678-1700), Milano 2015, pp. 94, 100, 104. Teodoro Fittipaldi riteneva invece il drappo di Santa Cita frutto di una collaborazione con il pittore Antonio Grano sulla base di tre suoi disegni accomunati dalla presenza di un grande tendaggio retto da putti o angeli, la cui forma a baldacchino però, secondo Garstang, poco avrebbe a che fare con Santa Cita, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta…, 1990, p. 295. È plausibile però un riferimento ad un altro disegno di Grano, ossia il frontespizio del volume del Festino del 1686 il cui architetto fu però Paolo Amato che vede Santa Rosalia in gloria sulla città di Palermo con alle spalle un drappo sorretto in più parti da putti.[↩]
- D. Garstang, Giacomo Serpotta e i serpottiani. Stuccatori a Palermo (1656-1790), Palermo 2006, p. 58. Alla liberazione di Vienna vennero tra l’altro dedicati i festeggiamenti del Festino del 1684 alla cui organizzazione partecipò Paolo Amato, cfr. P. Palazzotto, Tradizione e rinnovamento…, 2015, p. 101.[↩]
- Secondo Garstang, tale tema iconografico avrebbe dei diretti precedenti all’interno del contesto cittadino, come il basamento della statua bronzea di Carlo V in Piazza Bologna o il monumento a Filippo IV sul piano del Palazzo Reale. Palazzotto nota poi una probabile citazione dell’Ares Ludovisi, restaurato nel 1622 da Bernini: l’elsa della spada sembrerebbe una citazione dello stesso particolare del famoso gruppo scultoreo. Citazione certo molto circoscritta, ma plausibile: la scultura viene infatti illustrata alla tavola 38 del volume di François Perrier Segmenta nobilium signorum e statuarum del 1638. Un testo che Serpotta userà in svariate occasioni. Garstang nota, infine, come il vago motivo della testa muliebre, al di sopra della battaglia, lo si ritrovi alla base della statua della Vergine nell’altare della Madonna Libera Inferni progettato da Paolo Amato nel 1684, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta… 2006, pp. 51, 59).[↩]
- Serpotta si inserisce nel solco di una tradizione scultorea che risale dai rilievi gaginiani fino al Laurana, appropriandosi della forma tradizionale dei teatrini e trasformandone la spazialità, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta… 2006, pp. 79-81. Alcuni dei teatrini in Santa Cita palesano un diretto collegamento con i rilievi della Tribuna gaginiana della Cattedrale: Meli ritiene infatti la Pentecoste dell’oratorio una traduzione dell’omonima composizione del Gagini, cfr. F. Meli, Giacomo Serpotta…, 1934, p. 145. Garstang collega il rilievo dell’Assunzione sia con il fregio della Dormitio Virginis in Cattedrale sia con la scena dell’Assunzione dell’ancona marmorea della chiesa di Santa Cita. Un ulteriore legame con i rilievi gaginiani è individuato nella Salita al Calvario di chiara derivazione raffaellesca, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta… 2006, p. 82; G. Carandente, Giacomo Serpotta, Torino 1967, p.32. Espliciti riferimenti a modelli pittorici emergono infine in altri teatrini. Trattandosi della raffigurazione dei Misteri del Rosario, il collegamento più immediato è forse il grande quadro del 1540 di Vincenzo da Pavia della vicina chiesa di San Domenico raffigurante la Madonna del Rosario attorniata dai relativi Misteri, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta…, 1990, p. 296. A Vincenzo da Pavia Serpotta guarda anche per il rilievo della Natività, ispirato esplicitamente al quadro di analogo soggetto, dipinto entro il 1556, collocato all’interno della chiesa della Gancia, cfr. P. Palazzotto, Venite Adoremus. Natività d’arte nelle chiese di Palermo dal XII al XIX secolo, Palermo 2004, pp. 36-37.[↩]
- Sulla derivazione dai putti di François Duquesnoy e in generale dal contesto più generalmente romano si vedano G. Carandente, Giacomo Serpotta, 1967, p. 20; D. Garstang, Giacomo Serpotta… 2006, p. 68-70; P. Palazzotto, Techinque and Inspiration in the work of Giacomo Serpotta Master of Ornament, in Res Literaria République des Savoirs, Roma 2016, p. 183. Tra i contributi più recenti sul tema cfr. R. Lattuada, Piccoli segreti di un genio: alcune fonti visive e incisorie per la produzione di Giacomo Serpotta in Il Bello, l’Idea e la Forma. Studi in onore di Maria Concetta Di Natale, Palermo 2022, pp. 325-330.[↩]
- Le Allegorie sono le parti decorative che palesano più chiaramente un rimando al barocco romano. La fonte iconografica viene individuata da Meli nell’Iconologia di Cesare Ripa, cfr. F. Meli, Giacomo Serpotta…, 1934, p. 144. Le figure allegoriche di Santa Cita sono però sedute, a differenza del testo in questione dove vengono rappresentate in piedi (e come accadrà d’altronde nei successivi oratori). Proprio la scelta di raffigurarle sedute spinge a rivolgersi verso possibili modelli romani. Allegorie sedute possono rintracciarsi ad esempio lungo la navata di Santa Maria del Popolo o sugli archi della navata di San Pietro. Ma sono i monumenti funebri gli apparati dove figure allegoriche di questo genere ricorrono più frequentemente: si pensi al monumento del Cardinale Carlo Bonelli, realizzato su disegno di Carlo Rainaldi (1674 ca.) all’interno della chiesa di Santa Maria sopra Minerva o alla cappella Ginetti in Sant’Andrea della Valle disegnata da Carlo Fontana o ancora i monumenti Gastaldi in Santa Maria dei Miracoli, cfr. S. Grasso, Il valore della tradizione in S. Grasso – G. Mendola – C. Scordato – V. Viola, Giacomo Serpotta. L’oratorio del Rosario in Santa Cita a Palermo, Leonforte (EN), 2015, p. 49; P. Palazzotto, Tradizione e rinnovamento…, 2015, p. 87. Garstang propone un riferimento invece al catafalco funebre di Sisto V in Santa Maria Maggiore del 1591, in particolare per le figure sedute dipinte e scolpite attorno al feretro papale da artisti tardomanieristi quali il Cavalier d’Arpino, Ventura Salimbeni, Jacopo Zucchi, etc. e rappresentate in incisioni di Francesco Villamena, cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta…, 2006, p. 63.[↩]
- G. Mendola, L’oratorio del Rosario in Santa Cita in S. Grasso, G. Mendola – C. Scordato – V. Viola, Giacomo Serpotta. L’oratorio del Rosario in Santa Cita a Palermo, Leonforte (EN) 2015, pp. 28-31.[↩]
- E. Mauceri, Giacomo Serpotta, in “L’Arte. Periodico di Storia dell’Arte Medievale e Moderna e d’Arte Decorativa”, IV, Roma 1901, p. 166; F. Meli, Giacomo Serpotta. La vita e le opere, Palermo 1934, p. 249.[↩]
- G. Carandente, Giacomo Serpotta, 1967, pp. 73-74.[↩]
- D. Garstang, Giacomo Serpotta…, 2006, p. 70.[↩]
- Il dipinto è stato oggetto di un recente restauro, cui è stato dedicato il volume di G. Bongiovanni, P. Palazzotto, M. Sebastianelli, Carlo Maratti la Madonna del Rosario e Santi, Palermo 2021. Sulle vicende relative alla commissione dell’opera si veda il contribuito di Palazzotto. La pala, commissionata nel 1689, giunse a Palermo nel 1695. La commissione si inseriva nel contesto cittadino come con la precisa volontà di competere con gli altri grandi nomi che almeno dal 1600 popolavano gli oratori palermitani. Se non intere quadrerie, diversi oratori potevano vantare infatti pale d’altare di pittori di chiara fama. Si consideri innanzitutto, per citarne solo alcuni, il Caravaggio della compagnia di S. Francesco in S. Lorenzo, o il Van Dyck della cugina compagnia in San Domenico, o ancora un perduto Guercino del distrutto oratorio del SS. Sacramento in S.Nicolò alla Kalsa. Lo stesso Maratti, proprio in quest’ottica, avrebbe chiesto ad Antonio Grano una copia della pala di Van Dyck. L’incarico affidato a Maratti nel 1689 si pone, osserva Palazzotto, in continuità cronologica con i lavori serpottiani, segno quindi che anche l’intervento del pittore di Camerano rientrava coerentemente all’interno di una visione complessiva e organica della decorazione, che aveva quindi il preciso scopo di focalizzare l’attenzione sul ruolo del rosario, in maniera forse anche più accentuata di quanto non avessero già fatto i vicini di San Domenico. A conferma di ciò si consideri che a fare da intermediario con il pittore fu infatti un tale Giuseppe Maratti, confrate della compagnia dal 1678. Costui era stato congiunto del governatore proprio negli anni in cui si stabilì la commissione a Serpotta, e forse potrebbe aver ricoperto un ruolo significativo per tale incarico. In ogni caso, la pala riscosse subito un enorme successo, come conferma la lettera di ringraziamento inviata a Maratti dai confrati il 4 agosto 1695 e posta da Giovan Pietro Bellori a conclusione della vita dell’artista. In breve, la presenza di un Maratti in Sicilia divenne modello imprescindibile per la pittura isolana. Sull’eredità del dipinto in Sicilia si veda il contributo di Gaetano Bongiovanni. Sui bozzetti e i disegni preparatori per l’opera, si veda invece il contributo introduttivo di Simonetta Propseri Valenti Rodinò.[↩]
- Antonia Nava Cellini la ricollega alla Fortezza (1685 ca) realizzata da Camillo Rusconi per la cappella Ludovisi nella chiesa romana di Sant’Ignazio, cfr. A.Nava Cellini, La Scultura del Settecento, Torino 1982, p. 75.[↩]
- Guido Reni E L’Europa. Fama E Fortuna, catalogo della mostra (Frankfurt, 1 dicembre 1988-26 febbraio 1989) a cura di S. Ebert Schifferer – A. Emiliani – E. Schleier, Bologna 1988, p. 146.[↩]
- F. Candi, D’après le Guide. Incisioni seicentesche da Guido Reni, Bologna 2016, p. 117.[↩]
- Sono davvero innumerevoli gli esempi di questa prassi, e l’argomento meriterebbe una più ampia e approfondita trattazione, ma si consideri qui, a titolo esemplificativo, il caso della Fortezza dell’Oratorio di San Domenico. La scultura «nasconde in realtà un’abile reinterpretazione di figure prassiteliche come l’Apollo sauroktònos (conservato fra il 1650 e il 1870 nella Villa Borghese di Roma ed ora al Louvre)», cfr G. Cosmo, Giacomo Serpotta, Prassitele e la formazione romana in “Commentari d’Arte. Rivista di Critica e Storia dell’Arte”, II, 4, gennaio-aprile 1997, Roma, p. 49. Ma il riferimento è, per così dire, celato da una sofisticata e complessa rielaborazione. Ciò che spicca sicuramente è l’aspetto da elegante e raffinata dama, chiara espressione di quel gusto prerococò di cui si è detto. La generale temperie culturale di gusto francese all’inizio del secolo sicuramente spiega queste incursioni così “alla moda”, ma tramiti più concreti potrebbero individuarsi anche in questo caso in fonti a stampa come quelle ad opera di incisori come Nicolas Bonnart, Nicolas Arnoult, Jacques Lepautre, etc. raffiguranti dame e gentiluomini della corte francese impegnati in svariate attività e abbigliati in vario modo secondo gli indumenti più in voga del momento , cfr. D. Garstang, Giacomo Serpotta…, Palermo 1990, p. 297; S. Grasso, Lo spettacolo globale in S. Grasso – G. Mendola – C. Scordato – V. Viola, Giacomo Serpotta. L’oratorio del Rosario in San Domenico, Leonforte (EN) 2015, p. 53.[↩]
- M.G. Paolini, Aggiunte al Grano e altre precisazioni sulla pittura palermitana tra Sei e Settecento, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Catania 1982, p. 337; C. Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, p. 171.[↩]
- Si vuole qui avanzare una supposizione del tutto ipotetica relativa alla presenza a Palermo del pittore, allievo di Maratti, Giacinto Calandrucci, tornato da Roma nella sua città natale tra la primavera e il settembre del 1706 per affrescare la volta dell’Oratorio di San Lorenzo, cfr. F. Meli, Giacomo Serpotta…, 1934, p. 267; M. B. Guerrieri Borsoi, Giacinto Calandrucci, commento alla biografia, in L. Pascoli, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, edizione critica, Perugia 1992, p. 756. Calandrucci muore però nel febbraio del 1707 lasciando incompiuta la volta dell’oratorio che viene completata dal fratello Domenico, anche lui pittore. Quest’ultimo, in assenza di un testamento e in comune accordo con altre due sorelle, decide di mantenere l’usufrutto di tutti beni dell’artista, cfr A. Desmas, L’universo artistico di un allievo di Maratti: lo studio Calandrucci e le sue raccolte descritti da un nuovo inventario, in “Bollettino d’Arte”, LXXXVI, s. VI-118, ottobre-dicembre 2001, p.79. Domenico rimane a Palermo fino al 1709 quando ritorna a Roma dove muore nell’agosto dell’anno successivo, cfr. M. B. Guerrieri Borsoi, Giacinto Calandrucci…,1992, p. 756. Tra le stampe, le incisioni e le opere di loro proprietà risultano non solo una «Lucretia e Giuditta copie ritoccate di Guido» citate nell’inventario del 1737 dei quadri, ma soprattutto, nell’elenco delle stampe di diversi autori, risultano una «Giuditta e Lucretia del d.o. (Guido Reni)», cfr. A. Desmas, L’universo artistico di un allievo di Maratti…, 2001, p. 102. Lotto n. 29, p. 114. Lotto n. 680. Il fatto che i riferimenti, tanto per le copie nell’inventario dei quadri quanto per le due stampe, siano, congiuntamente, alla Lucrezia e alla Giuditta del pittore bolognese fa supporre che sia i quadri che le due stampe fossero riproduzioni delle due opere facenti parte della collezione Spada (a loro volta, si è visto, copie di Reni). Estremamente plausibile, dunque, che le due stampe in questione fossero proprio quelle realizzate da Sébastien Vouillemont nel 1638. Si potrebbe dunque ipotizzare che Calandrucci e il fratello avessero con loro tali stampe, che Serpotta abbia avuto modo di visionarle e che ne abbia potuto trarre dei disegni che poi, anche a distanza di diverso tempo, rielabora e riutilizza in maniera del tutto autonoma e originale? È impresa ardua, e forse vana, cercare di fissare con assoluta certezza questa ipotesi. I canali erano certamente molteplici e differenziati.[↩]