Benfattj magistribilmentj et ben sonantj. Fonditori di campane tra Caltanissetta e Sutera nella Sicilia di età moderna
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DOI: 10.7431/RIV29062024
La presenza di fonditori di campane nella Sicilia centrale, a Caltanissetta e Sutera in particolare, provenienti dalle principali fonderie di Burgio, Tortorici, Palermo e altri centri, è documentata tra Cinque e Settecento. Si tratta di maestranze, in alcuni casi inedite, indicate prevalentemente col titolo di ‘mastri’ e, talvolta, con quello di don o notabile. Le loro opere, soprattutto quelle fuse tra Cinque e Seicento, sono andate in prevalenza perdute. Ne danno prova i numerosi contratti di obbligazione, nei quali ogni nuova fusione veniva motivata dalla necessità di sostituire campane ‘rutte’ – quindi non più sonanti – con nuove. La loro scomparsa può anche essere addebitata alla requisizione del bronzo disposta dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia il 25 giugno 1860, destinato alle ‘bocche a fuoco’ dell’artiglieria nazionale1.
I contratti sui fonditori non sempre forniscono dati relativi alle fornaci dove avrebbe avuto luogo la fusione bronzea. Parrebbe, tuttavia, certo che per tutto il Cinque e Seicento le maestranze ricorressero a fornaci provvisorie, costruite vicino ai luoghi dove sarebbero poi stati collocati i manufatti2. Questi dovevano essere «benfattj magistribilmentj et ben sonantj». L’espressione equivalente usata nelle fonti per esplicitare questo concetto è «ut decet di bon sono».
Una fusione a regola d’arte e priva di difetti costituiva la condizione indispensabile per garantire all’opera qualità estetica ed acustica. Quest’ultima dipendeva, in particolare, dalla nota musicale scelta e dal bilanciamento degli spessori che definivano il profilo del manufatto nel rapporto tra il suo peso e il diametro. Tale relazione spiega il costante riferimento nei contratti al peso espresso in cantari (80 kg circa), nel quale era sovente compreso il bronzo riciclato. In sparuti casi, si documenta l’acquisto di rame che, associato allo stagno, dava forma al bronzo. Il fonditore, inoltre, garantiva il corretto funzionamento del prodotto per alcuni anni, impegnandosi a rifonderlo in presenza di problemi acustici (Fig. 1).
Fonditori di campane nel Cinquecento
La prima notizia, a Caltanissetta, sui fonditori nella chiesa madre di Santa Maria La Nova risale al 1521. Se ne ha traccia, in quell’anno, nella vendita che l’oscuro notabile mastro Antonio Coruna fece all’arciprete Giovanni De Alessio: «campanam metallj ponderis duorum cantariorum et rotulorum viginti quinque»3.
Non una nuova fusione, ma il rifacimento di due mioli, vale a dire cicogne, viene registrato nel 1571, quando i fratelli Valenzio e Giuseppe De Polizio di Piazza Armerina furono incaricati dal sacerdote Vincenzo De Forte «ut dicitur cum la loro lignamj et mastria farj duj miolj alj campanj grandi dila matrj Ecclesia dj Caltanixetta»4. Nel 1579, l’arciprete Giacomo Matera affidò a Giovanni Andrea Mangiunj e Santoro Sanfilippo di Tortorici, in quel tempo abitanti di Castrogiovanni (Enna), l’incarico «de novo fari li duj campanj grandj della detta maiurj eclesia che sonno tuttj dilo modo et forma che sonno allo presentj et di quella misura grandiza altiza larghiza et grosseza come sonno dectj duj campanj benj benfattj magistribilmentj et ben sonantj» per la somma di 15 onze5. La figura di Mangiunj è peraltro documentata ad Enna, dove eseguì con Giovanni Lupo sei candelieri in ottone per la chiesa madre6. I Mangione sono fonditori di origine melitense, poi giunti in Sicilia e stabilitisi a Sciacca nel Cinquecento. Il dato è attestato a proposito di Filippo Mangione, discendente del citato Giovanni Andrea, che opererà nel 1630 per la chiesa saccense di San Vito7. Sanfilippo, indicato nel 1585 come cittadino di Piazza Armerina, lavorò in quello stesso anno nella chiesa nissena della confraternita di San Biagio. Lì realizzò una fusione col rame che gli era stato fornito, in cambio del compenso e del «mangiarj et ad bivirj et letto ad dormirj mentri chi farrà ditta campana». Il dato conferma che la fusione avvenne in un sito prossimo alla chiesa8.
Il riciclo di materiali dalla dismissione di manufatti danneggiati destinati alla produzione di nuovi emerge costantemente, come visto, nelle fonti. Nel 1587, il metallo di due campane non più funzionanti, su commissione del procuratore della fabbrica della chiesa madre, venne impiegato da Andrea De Costanso e Mariano Jarrusso (Giarrusso) di Castrogiovanni per «cularci dui campani per detta matri eclesia una di cantara dui et l’altra di rotula quaranta»9. I due fonditori, in quello stesso periodo, si occuparono anche di due nuove fusioni per la badessa Elisabetta Rabiolo del monastero di San Benedetto10. La figura di De Costanso, originario di Tortorici, si ritrova alla fine del Cinquecento nella chiesa madre di Enna nella fattura delle basi di due candelieri caratterizzati dall’esuberanza «di motivi grotteschi, maschere e scudi»11. Oltre a, lui si documenta la presenza nei territori madoniti, a Geraci in particolare, del fonditore Domenico Costanzo, attivo nel 1666 nella fusione di una campana per la chiesa di San Bartolomeo12. Mariano Giarrusso è, invece, precursore di una bottega che trovò particolare diffusione a Petralia Sottana dal 1605 al 1660. Proprio a Petralia Sottana il mastro decise di sposarsi per la seconda volta nel 1627. Diverse sono le collaborazioni con i suoi figli Francesco e Calogero, finalizzate alla fusione di campane per diversi centri madoniti e non solo, come Castel San Lucio. Rosario Termotto ha, a tal proposito, ricostruito la vicenda professionale della bottega dei Giarrusso elencandone le opere eseguite a Collesano, Cefalù, Sclafani, Polizzi e San Mauro13.
Un nuovo fonditore, presente a Caltanissetta nel 1598, è il palermitano Melchiorre Portaro (o Portalj). A lui va la fattura, su richiesta del superiore del collegio gesuitico, di «una campana di duj cantara di bono mitallo bene fatta»14. Egli lavorò nello stesso anno anche per i Domenicani15. Portaro è probabilmente parente di Antonio Portari documentato a Palermo nella seconda metà del secolo, il cui nome si legge nella campana delle ore del Duomo16. La fusione nissena avvenne dopo quella che, nel 1587, Mariano Giarrusso e Andrea Costanso di Castrogiovanni avevano realizzato per il priore domenicano Giovanni Battista. In quel caso, il contratto specificò che l’opera andava fatta col riuso del metallo di «una campana rutta di rotula tridici»17.
La presenza di un fonditore tortoriciano si attesta anche a Sutera nella seconda metà del secolo. Se ne ha notizia con Almirante de Liucio (Liuzzo) che, nel 1566, vendette ai giurati della cittadina «unam campanam seu tintinnabulum ponderis cantarei unius et rotulorum quindecim bonam ac bene sonantem». L’opera venne probabilmente collocata nella macchina di un orologio, fornito e quasi certamente costruito dallo stesso maestro, del peso di 3 cantari e 97 rotoli18. L’orologiaio Liuzzo fu anche autore dell’orologio della chiesa madre di Enna, assieme ad Andrea De Costanso a cui si riferisce l’esecuzione delle sue sfere con la luna ed il sole19.
Fonditori di campane nel Seicento
Nel 1608, il tortoriciano Minicus (Domenico) Crimi realizzò per i Minori Riformati di Santa Maria degli Angeli di Caltanissetta una campana di 12 cantari20. Più avanti, nel 1614, Cataldo e Giovanni Filippo Garbato di Tortorici, rispettivamente zio e nipote, già impegnati in una importante fusione per il collegio saccense, lavorarono in città per i Gesuiti21. Si tratta di fonditori appartenenti ad una bottega, tra le più attive di Tortorici, documentata dal 1530 al 1628. Cataldo e Giovanni furono quasi certamente parenti di Pietro e Natale Garbato, i cui lavori sono descritti a Sciacca rispettivamente nel 1556 e nel 1587, oltre che a Rometta, Itala, Ciminna, Alcamo e Liotta22. Cataldo Garbato, nello specifico, si occupò a Sciacca di una fusione per la confraternita di San Michele. Nella stessa città, lavorò anche con Andrea Garbato, padre di Giovanni Filippo, nella chiesa della Maddalena23. In ambito madonita è molto diffuso l’operato di Gerolamo, figlio di Pietro, che dal 1561 al 1594 fornisce campane alla chiesa madre di Collesano e a quella di Castelbuono. Lo stesso opera nel 1585 ad Alcamo e nel primo trentennio del Seicento per la cattedrale di Cefalù e per le chiese di Sclafani, Caltavuturo e Caccamo24.
Le fonti registrano che nel dicembre 1662 la campana dei Gesuiti di Caltanissetta si ruppe. Da una memoria del secreto del tempo, don Francesco Notarbartolo, si legge che questi «essendo stato gravemente infermo nel mese passato d’agosto fece voto ad Ignatio di fare la campana nova con aggiungervi un cantaro di metallo sopra di quello che la rotta pesasse. E così ricuperata la salute subito alli 6 di settembre si buttò la campana rotta dal campanile sopra la cappella della Madonna che fu di peso cantara 3 e rotula 33 e mezzo che purificato nella fornace e restò di netto cantare 3 in circa». La nuova fusione, assegnata ad un tale mastro Calogero, di cui non viene però fornito il cognome, avvenne vicino la «porta falsa», vale a dire secondaria, del collegio. Nel luogo si costruì una fornace, il cui combustile, 30 cantari di legna, fu fornito dalla committenza. Una cronaca racconta che «si cavò <la campana> da sotto terra alli 29 detto <di settembre>, si crede essere di cantara 4 e rotula 12 in circa. S’appese la campana nova vicino alla porta falsa e vi stette»25. Il manufatto, benché andasse posizionato nel campanile da erigere sopra la cappella del Santissimo Crocifisso, non vi trovò immediata collocazione a causa di un dissesto della struttura. Per tale ragione se ne ritardò la costruzione e si decise di sistemarlo in corrispondenza della finestra della citata cappella prospiciente la strada.
Si annoverano, nel XVII secolo, a Santa Maria La Nova, nuovi fonditori come l’inedito Giacomo De Russo, autore nel 1626 di una campanula26. É membro di una bottega di Bivona o forse di Tortorici, nella quale si inserisce in quegli anni Giovanni Russo, attivo nel 1623 in una fusione per la chiesa madre di Collesano27. Nel 1666, la confraternita nissena del Santissimo Sacramento decise di far realizzare a Calogero Giarrusso per la chiesa madre una nuova campana, impiegando la somma di 40 onze disposta in un atto del 1609. Su di essa fu posta l’iscrizione in rilievo:
«Cristus Rex venit in pace, Deus homo factus est et Verbum Caro factum est renovatus anno 1666. Expensijs societatis Sanctissimi Sacramenti ac etiam fabricae ditte Matricis Ecclesiae. Magister Calogerus Giarrusso fecit»28.
Nel 1634, lavorarono in città altri due membri della fonderia dei Giarrusso su richiesta dei Conventuali di San Francesco. Si tratta di Francesco e Giuseppe Giarrusso, forse fratelli e figli del citato Mariano Giarrusso che a Petralia Sottana aveva impiantato la sua bottega. A Caltanissetta per i padri Conventuali eseguono un’opera di 8 cantari circa29. Il nome di Francesco emerge anche tra i conti della chiesa di San Giovanni Battista di Collesano30. Il suo operato spazia dal 1631 al 1661, sempre in ambito madonita, nelle terre di Castelbuono, Polizzi, Sclafani e San Mauro31.
L’ultimo fonditore, finora noto alla fine del secolo, è l’inedito piazzese Sebastiano Giarrusso. Probabilmente esponente della citata famiglia di Petralia, è attestato nel 1690, quando lavora ad una nuova fusione per la confraternita nissena di San Biagio32. È di quegli anni una campana, ancor oggi nella torre campanaria di San Domenico, datata 1693. Essa presenta una fascia decorata con foglie, forse di quercia o alloro, alternate a raffigurazioni di santi dell’ordine dei Predicatori. Tra queste si riconoscono Sant’Antonino Pierozzi vescovo domenicano, col pastorale nella mano sinistra e la mano destra benedicente, la sacra famiglia e due figure maschili: la prima barbuta, identificabile probabilmente con San Domenico, e la seconda con San Tommaso d’Aquino33 (Figg. 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7).
Fonditori di campane nel Settecento
La fusione di una campana grande per la chiesa nissena di San Giuseppe viene documentata nel 1709 nel testamento di Antonio Costa, detto lo Zingaro, per la somma di 10 onze. La vicenda della sua produzione è particolarmente interessante perché avvenne in due fasi. Dopo un primo tentativo condotto dall’inedito don Silvestro Bonaccolta, forse non riuscito per errori tecnici, ce ne fu un secondo che vide la partecipazione del burgitano Vito d’Alcuni (Arcuri), a cui furono pagate 16 onze circa34. Bonaccolta appartiene probabilmente a fonditori di Castrogiovanni, tra i quali si annovera nel Seicento Giuseppe Bonaccolto, autore della campana maggiore della cattedrale di Palermo35 e di altre due campane eseguite rispettivamente nel 1646 per la matrice di Castronovo e nel 1662 per la chiesa madre di Sclafani36.
Il coinvolgimento di burgitani nei cantieri nisseni è nel XVIII secolo ampiamente attestato. Nel 1711, infatti, Arcuri lavorò per i Gesuiti ad una importante fusione37. Un altro burgitano, Sebastiano Arcuri, appartenente verosimilmente alla citata bottega degli Arcuri, si obbligò nel 1734 con i Domenicani nella fusione di una «campana grande» per il prezzo di 4 onze38. Metà della somma fu, però, elargita dal fonditore ai committenti in beneficio della loro chiesa. L’opera fu rifusa nel 1779, su incarico del padre baccelliere Vincenzo Giordano, da don Francesco Panzera – «Regio funditore della Città di Palermo» – e dai fonditori, anch’essi palermitani, Giuseppe Milazzo e Onofrio Di Marca. Questi si impegnarono «in dover fare la campana di ditto venerabile convento di peso cantari otto circa, bene e magistribilmente secondo richiede l’arte e perizia e con tutti li patti, clausule, condizioni, fide ed altri espressandi»39. Nel contratto nisseno, i Domenicani si obbligarono a scendere la vecchia campana e a ricollocare la nuova di nove quintali. In più, sul manufatto venne inserita una iscrizione dettata dal priore, ancor oggi visibile, assieme a due figure una delle quali raffiguranti San Domenico40: «Omnibus Sanctis Ordinis Predicatorum + Deo Optimo Maximo et Beate Mariae Virgini et Immortalis miserere nobis Anno Domini MDCCLXXIX Dat Donat Dedicat».
I Panzera sono celebri fonditori, a cui va il merito tra Otto e Novecento di aver costruito una delle più importanti fonderie industriali siciliane del tempo. L’autore, coinvolto nel lavoro ordinato dai Domenicani, fu tra i primi componenti della bottega palermitana della prima metà del Settecento, nella quale si annoverano anche le figure di Nunzio, Nicolò e Giovanni. Le loro opere sono documentate nella chiesa madre di Ustica e nel castello di Agrigento, quest’ultima eseguita su incarico di Nicolò Palma. La società con Giuseppe Milazzo non costituisce, però, un dato del tutto inedito nella produzione dei Panzera, dal momento che i due collaborarono nella chiesa del Real Albergo dei Poveri di Palermo. Milazzo lavorò accanto a Di Marca a tre opere bronzee per la chiesa madre di Villafrati41 (Fig. 8).
Il quadro di maestranze nel XVIII secolo si chiude, per il momento, con l’inedito mastro di Chiaramonte Marco Motta. Egli compare, tra il 1720 e il 1721, nella fusione di un’opera di sei cantari costata 90 onze commissionata dal rev. Paolo La Cagnina per la chiesa nissena di San Giovanni e delle Anime del Purgatorio42. Accanto a lui lavorò il nisseno Francesco Ragusa pagato 87 onze circa per l’acquisto di «tanto ramo pro servitio dell’infrascritta campana»43.
La riflessione sui fonditori nella Sicilia centrale – in alcuni casi già documentati, mentre in altri del tutto inediti – arricchisce il quadro di conoscenze sulla produzione bronzea in età moderna. Dalla lettura dei dati si inferisce l’esistenza di fornaci provvisorie, per tutto l’arco del Cinquecento e del Seicento, alle quali seguirono successivamente produzioni in fonderia. Inoltre, la circolazione nell’isola di maestri, provenienti da località note per l’esistenza di botteghe specializzate, traccia lo spaccato di un contesto territoriale dinamico. In esso, emergono intere famiglie che disseminano i loro prodotti nelle città, lasciandone ancor oggi evidenza in quelli scampati a fusioni e requisizioni. Costituiscono, a tal proposito, traccia ed espressione della committenza sia i dati acquisiti attraverso le fonti archivistiche che le raffigurazioni e iscrizioni poste in rilievo sulle opere bronzee. Lo studio sulle campane mette, però, in risalto numerose questioni a cui occorre che la ricerca fornisca risposte. Queste riguardano, perlopiù, i profili dei maestri inediti, di cui sarà anche utile verificare l’eventuale impegno nella produzione di manufatti decorativi destinati alla liturgia e al culto.
Abbreviazioni usate nel testo
ASCl: Archivio di Stato di Caltanissetta
CC.RR. SS. Corporazioni Religiose Soppresse
- Cfr. I. Navarra, I maestri di Tortorici fonditori di campane in Sciacca e paesi limitrofi ad essa. Documenti inediti, in «Archivio Storico Messinese», Società Messinese di Storia Patria, vol. 40, III s., XXXIII, a. 1982, p. 404.[↩]
- Cfr. G.B. Ferrigno, L’arte di fondere le campane in Sicilia, in «Archivio storico siciliano», n.s. L, 1930, pp. 259-280. Sulla produzione delle campane prima della costruzione di fonderie stabili si rimanda a P. Dinaro, Una famiglia di fonditori di campane nella Scordia dell’Ottocento: i Grimaldi. L’attività tra le diocesi di Siracusa, Caltagirone e Catania, in Platea Magna: studi sulla storia di Scordia, a cura di C.F. Parisi-A. Cucuzza-C. Gambera, 2, Catania 2023, pp. 159-176.[↩]
- ASCl, Not. B. Boccaccio, reg. 235, f. 311r.[↩]
- ASCl, Not. G. Zanga, reg. 118, f. 943r.[↩]
- ASCl, Not. B. Bruno, reg. 282, s.n. Sulla famiglia dei fonditori di campane attivi a Tortorici sin dal Quattrocento si rimanda a G. Di Marzo. Delle belle arti in Sicilia dai normanni sino alla fine del secolo XIV, I, Palermo 1859; si veda anche I. Navarra, I maestri di …, 1982, pp. 391-406. Per un ulteriore approfondimento sui fonditori di Tortorici si vedano S. Di Bella, Fonditori del XVII secolo a Messina, Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Messina, 12, 1988; S. Franchina, Campane e campanari di Tortorici (dal secolo XIII al XX), Patti 1999.[↩]
- Cfr. R. Pace, Lupo Giovanni, in Arti decorative in Sicilia. Dizionario biografico, a cura di M.C. Di Natale, II, Palermo 2014, p. 404, ad vocem. Santoro Sanfilippo appartiene quasi certamente alla bottega dei Santoro, fonditori di Tortorici, in cui si annoverano: Domenico, Francesco, Gerolamo, Geronimo, Giandomenico, Giorgio, Giovanni, Iacopo, Matteo e Paolo Sanfilippo. Sul loro operato si rimanda a R. Termotto e S. Di Bella, in Arti decorative in Sicilia…, 2014, p. 548, ad voces.[↩]
- Cfr. M. Ciaccio, Sciacca. Notizie storiche, voI. II, Sciacca 1988, p. 89; I. Navarra, I maestri di …, 1982, p. 400, nota 47.[↩]
- ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 408, f. 902r. Santoro Sanfilippo appartiene probabilmente alla stessa bottega di fonditori di campane per la quale nel 1593 Giacomo Sanfilippo, forse suo parente, realizza una campana per la chiesa madre di Castelbuono. Sull’argomento si veda R. Termotto, “Maestri di campane” nei paesi delle Madonie, in L’Isola ricercata, inchieste sui centri minori della Sicilia secoli XVI-XVIII, Atti del convegno di Studi (Campofiorito, 12-13 aprile 2003), a cura di A.G. Marchese, Palermo 2008, p. 432.[↩]
- ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 414, s.n.[↩]
- ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 411, s.n.[↩]
- Cfr. R. Vadalà, Di Costanzo (Costanzo) Andrea, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, p. 199, ad vocem.[↩]
- Oltre ad Andrea de Costanso, viene documentata la presenza nei territori madoniti, a Geraci in particolare, del fonditore Domenico Costanzo, attivo nel 1666 nella fusione di una campana per la chiesa di San Bartolomeo.[↩]
- Cfr. R. Termotto, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, pp. 287-288, ad vocem. Sull’argomento si veda anche R. Termotto, “Maestri di campane”…, 2008, passim.[↩]
- ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 438, f. 521v.[↩]
- ASCl, Not. F. Mammana, reg. 354, f. 289r.[↩]
- Cfr. M. Sirtoli, Portari Antonio, in Arti decorative in Sicilia…, II, 2014, p. 503, ad vocem.[↩]
- ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 411, s.n.[↩]
- ASCl, Not. G. Borgisi, reg. 103, f. 380v.[↩]
- Cfr. R. Vadalà, Di Costanzo (Costanzo) Andrea, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, p. 199, ad vocem.[↩]
- ASCl, Not. P. Curcuruto, reg. 589, s.n. Su Domenico Crimi, fonditore di Tortorici, noto per una campana fusa nel 1597 per la chiesa di Santo Stefano nel villaggio messinese di Salice e per altre opere come la campana fusa nel Seicento per la chiesa madre di Motta Camastra si rimanda a S. Di Bella, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, p. 150.[↩]
- ASCl, Not. G. Gattuso, reg. 933, s.n. La fusione di una campana per la chiesa di Santa Maria dell’Arco viene documentata nel 1613 (ASCl, Not. A. la Mammana, reg. 463, f. 41r III). Su Cataldo Garbato si veda I. Navarra, I maestri di …, 1982, p. 398.[↩]
- Cfr. R. Termotto e S. Di Bella, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, p. 275, ad vocem. Sulla figura di Natale Garbato si rimanda a B. Sanfilippo-Galioto, Sacrum Xaccae theatrum in tresdecim libros divisum in quo multae antiquae excitantur, ms. del 1710, presso Biblioteca Comunale di Palermo, ai segni: Qq B 63, f. 38 (r), cit. in I. Navarra, I maestri di …, 1982, p. 393 nota 13. Su Pietro Garbato si rimanda a Idem, pp. 394-395.[↩]
- Sulla figura di Giovanni Filippo Garbato, autore di una campana per il convento di Santa Maria dell’Itria di Alcamo, si veda I. Navarra, I maestri di …, 1982, p. 400; P.M. Rocca, Fonditori di campane in Alcamo, in «Archivio Storico Siciliano», a. XV, Palermo 1890, p. 43. Sull’operato dei Garbato a Collesano si rimanda a R. Termotto, Fonditori di Tortorici a Collesano tra ‘500 e 600: i Garbato, in Collesano per gli emigrati, a cura di R. Termotto-A. Asciutto, Castelbuono 1991, pp. 172-174.[↩]
- Cfr. R. Termotto, “Maestri di campane” …, passim.[↩]
- ASCl, CC. RR. SS., Gesuiti, reg. 68, f. 40r.[↩]
- ASCl, Not. P. Drogo, reg. 614, f. 195r.[↩]
- Cfr. R. Termotto, in Arti decorative in Sicilia…, II, 2014, p. 538, ad vocem. Le fonti attestano l’esistenza di altri due membri della citata bottega dei Russo, Giovanni e Romenico, attivi rispettivamente nel 1623 e nel 1640 a Collesano e a Pollina. Si veda R. Termotto, “Maestri di campane”…, 2008, passim.[↩]
- ASCl, Not. M. Riccobene, reg. 823, f. 32r. Su Calogero Giarrusso si rimanda anche a anche R. Termotto, “Maestri di campane” …, 2008, passim.[↩]
- ASCl, Not. O. Milazzo, reg. 691, f. 337r III.[↩]
- Cfr. R. Termotto, Giarrusso Francesco, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, pp. 287-288, ad vocem.[↩]
- Cfr. R. Termotto, “Maestri di campane” …, 2008, passim.[↩]
- ASCl, Not. L. Fantauzzi, reg. 771, f. 79r.[↩]
- Si ringrazia lo storico dell’arte Felice Dell’Utri per i suggerimenti ricevuti nella lettura iconografica delle raffigurazioni.[↩]
- ASCl, Not. L. Fantauzzi, reg. 787, f. 489r. Il fonditore fu autore nel 1710 di campane per la chiesa madre di Alcamo. Su Vito Arcuri si veda R. Termotto, in Arti decorative in Sicilia…, I, 2014, p. 23, ad vocem.[↩]
- Cfr. Arti decorative in Sicilia…, II, p. 67, ad vocem.[↩]
- Cfr. R. Termotto, “Maestri di campane” …, 2008, passim.[↩]
- ASCl, Not. L. Fantauzzi, reg. 790, f. 608r.[↩]
- ASCl, Not. F. N. Curcuruto, reg. 3866, f. 1r.[↩]
- ASCl, CC.RR.SS., San Domenico, reg. 17, 24/10.[↩]
- Sugli ornamenti impressi alle campane si veda Enciclopedia Italiana di Scienze lettere ed arte (Istituto Enciclopedia Italiana fondato da G. Treccani), voI. VIII, Roma 1930, pp. 546, 565.[↩]
- Cfr. R. Termotto – M.C. Ruggieri Tricoli, Milazzo Giuseppe, in Arti decorative in Sicilia…, II, 2014, p. 434, ad vocem. Su Onofrio Di Marco si veda Ivi, p. 209, ad vocem.[↩]
- ASCl, Not. B. Fantauzzi, reg. 3248, f. 153r II. Alla bottega di Marco Motta appartiene probabilmente anche il calatino Paolo Motta documentato nel 1801 nella fattura di una campana per la Badia di Polizzi. Si veda R. Termotto, “Maestri di campane” …, 2008, p. 454.[↩]
- ASCl, Not. A. Falci, reg. 2019, f. 257r III.[↩]