Le sculture di Piazza Castelnuovo a Palermo – Genesi ed evoluzione storica di un intervento di arredo urbano
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DOI: 10.7431/RIV29122024
Nel quadro dell’evoluzione e dei mutamenti urbanistici che contraddistinsero le città europee, tra cui Palermo, dalla seconda metà dell’Ottocento, la scultura assunse una funzione nuova e fortemente simbolica. Ornando e caratterizzando le nuove costruzioni pubbliche e i nuovi spazi abitati dalla società emergente del tempo, essa partecipò alla definizione del nuovo volto della città. In virtù del suo potenziale comunicativo e della sua capacità di porsi in relazione con l’ambiente esterno, infatti, la scultura divenne presto la vera protagonista tra le arti figurative del tempo, collocandosi nelle più importanti strade e piazze cittadine1. Questo fenomeno ebbe uguale diffusione in tutta Europa e assunse anche il compito di rappresentare la nuova società borghese ansiosa di affermazione e detentrice del potere economico. Per ribadire il proprio ruolo centrale, fu infatti, sempre più spesso, la nuova borghesia ad assumere il ruolo di committenza di opere scultoree che andassero a decorare e arricchire alcuni dei luoghi simbolo del loro potere: le ferrovie vennero esaltate con la costruzione di stazioni monumentali, le borse e i teatri si ornarono di statue, i tribunali si animarono di simboliche rappresentazioni della giustizia e dell’equità2. La scultura concorse a trasformare, dunque, la città in una sorta di pantheon ideale, descrivendo simbolicamente l’ascesa delle nuove classi egemoni. I monumenti smisero, così, di essere esclusiva manifestazione del potere aristocratico e chiesastico per diventare un simbolo della nuova realtà nazionale, contribuendo a costruire una memoria condivisa attraverso un’operazione congiunta di architettura e scultura, di costruzione fisica e urbanistica della città con la creazione dei suoi monumenti celebrativi3.
Le strade e le piazze non furono, tuttavia, l’esclusivo palcoscenico del periodo: anche i giardini pubblici diventarono protagonisti, sia con opere decorative, sia grazie a sculture collocate come in musei a cielo aperto in cui si manifestava la piena partecipazione degli artisti palermitani alle vicende dell’arte nazionale. Un’infinita varietà di temi e motivi si ritrova in queste opere di committenza pubblica che abbelliscono e adornano, ancora oggi, le ville e i giardini della città. Una pratica ricorrente tra la fine del XIX e il primo trentennio del XX secolo furono i frequenti spostamenti e le ricollocazioni di queste opere scultoree, nell’ottica di un interesse ancora particolarmente vivo nei confronti delle operazioni di arredo urbano. Proprio questa è alla base della nascita del parco statuario di piazza Castelnuovo, composto da cinque sculture in bronzo realizzate tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da alcuni dei più noti scultori del tempo, di fronte all’imponente Teatro Politeama. Se oggi possiamo godere di una sistemazione a square di questa villetta è grazie al generoso intervento del banchiere inglese Guglielmo Ingham Whitaker. Nel 1872, egli propose la sistemazione di un pubblico giardino perfettamente inserito nel tessuto urbano per bloccare sul nascere una grossa speculazione edilizia che avrebbe trasformato l’allora piano di Santa Oliva in una selva di case e palazzi4. Tra le varie proposte avanzate per il suo abbellimento, tra cui la costruzione di una grande fontana ornamentale, mai realizzata, nella primavera del 1873, il sindaco della città Domenico Perrani incaricò l’Ufficio tecnico comunale di redigere il progetto per un teatrino di musica in legno che avrebbe dovuto collocarsi sulla medesima predella precedentemente innalzata al centro della villetta per «così vedere spuntare un fiore in quella piazza»5. L’idea riprendeva il modello di teatrino per la musica già realizzato al Foro Italico nel 1846 su progetto di Domenico Lo Faso e Carlo Giachery, in breve tempo divenuto il simbolo delle passeggiate estive della nobiltà e della borghesia palermitane, nonché uno dei monumenti in stile neoclassico più rappresentativi della città. Per il giardinetto di piazza Castelnuovo venne scelto il disegno presentato dall’ingegnere di sezione del comune Marco Antonio Fichera, in ‘stile svizzero’, con pilastrini poligonali e timpanature e frontoni lavorati a giorno6, la cui realizzazione venne affidata allo scultore e intagliatore Salvatore Valenti7. Ben presto, però, iniziarono a farsi sempre più potenti le voci di pretendenti speculatori che, non potendo bruciare la cassa comunale, minacciavano di dare alle fiamme il teatrino. Fu così che lo scultore Valenti, che con questo lavoro non mirava a un vile guadagno, ma a distinguersi nel campo dell’arte, propose di eseguire l’opera in marmo di Carrara e decorazioni metalliche della Fonderia Oretea per la stessa cifra di quello in legno, impegnandosi ad affrontare personalmente il maggiore costo8.
Per il giardinetto di piazza Castelnuovo venne, dunque, stabilita l’edificazione del tempietto in stile corinzio, ancora oggi ammirabile, e la sistemazione a square che seguiva un modello che rappresentò, fino agli anni Trenta del XX secolo, uno dei più significativi elementi di arredo urbano per i nuovi quartieri della città, anche grazie al piano regolatore e di risanamento cittadino del 1886 voluto dall’ingegnere Felice Giarrusso9. Elaborato in Inghilterra alla fine del Settecento, questo impianto venne introdotto a Palermo grazie agli interventi di Giovan Battista Filippo Basile, al quale, tra il 1861 e il 1864, si deve la trasformazione di piazza Marina con la creazione del Giardino Garibaldi, primo esempio di square nella città10. Questo tipo di architettura dei giardini si collega formalmente alle esperienze d’oltralpe di squares e piazze di design urbano che Jean-Charles Adolphe Alphand compiva intorno a quegli anni nella Parigi haussmanniana (v. gli squares di Batignolles, Montholon, Popincourt)11, introducendo elementi di qualità ‘naturale’ nel tessuto cittadino.
Il piano di Santa Oliva fu, così, completamente trasformato e assunse una funzione nuova nell’urbanistica palermitana: «Dove in altri tempi pascolavano le greggi e lavorava l’agricoltore, ora trae numeroso il popolo, nel pomeriggio ed alla sera, a ricreare l’animo ed il corpo affranti dai travagli del giorno, e ad ammirarvi i progressi che le arti e le industrie hanno fatto nel ‘bel paese’»12.
Un intervento di rilevante impatto decorativo in questo giardinetto fu, inoltre, la successiva collocazione di cinque statue bronzee, che attribuì nuovo prestigio alla piazza portando la scultura monumentale al di fuori delle sale dei musei: due nel 1935, posizionate agli angoli della villetta nel lato rivolto verso il Teatro e le altre tre dopo qualche mese, nel 1936, rispettivamente una al centro del lato già adornato in precedenza e le altre due lungo via Dante.
Due di queste sculture, l’Allegoria della Nautica e l’Allegoria del Lavoro, furono originariamente realizzate per adornare il Monumento civile a Ignazio Florio (Fig. 1) che sarebbe dovuto sorgere all’imbocco del porto per accogliere i visitatori provenienti dal mare e celebrare una delle figure più rilevanti del tempo. Il primo progetto, datato al 4 aprile 1893, prevedeva che il monumento fosse «da elevare in Palermo alla spiaggia del Borgo sull’asse di via Stabile»13, come rivela il disegno di massima della topografia realizzato dall’architetto Damiani Almeyda (Fig. 2). Il monumento civile avrebbe dovuto articolarsi in una fontana, tre statue, un leone, quattro cavalli marini e altri fregi, il tutto fuso in bronzo14. Una caratteristica della scultura del periodo consisteva nell’attenzione rivolta al piedistallo dei monumenti celebrativi, in cui lo zoccolo e l’impianto dell’insieme risultavano permeati da una logica decorativa affine al gusto per l’Art Nouveau: il ritratto del cittadino illustre posto in alto era quasi sempre riconducibile all’ambito del verismo, mentre lo slancio creativo degli artisti trovava libero sfogo nelle figure simboliche che affiancavano il piedistallo15. Ecco perché, anche in questo monumento, venne data particolare importanza alle sculture che avrebbero dovuto arricchire la sua base. Su progetto di Damiani Almeyda, la colossale statua raffigurante il Senatore Florio con le due sculture che avrebbero dovuto ornare il piedistallo rappresentando gli emblemi della sua stessa vita, furono affidate all’abilità scultorea di Benedetto Civiletti16. L’opera raffigurante l’Allegoria della Nautica, però, venne eseguita dallo scultore Mario Rutelli nel 1894, mentre Civiletti si occupò della realizzazione dell’Allegoria del Lavoro nel 1895. Rispetto al disegno progettuale di Almeyda, La Nautica venne riprodotta da Rutelli con una certa fedeltà, al contrario de Il Lavoro che, originariamente pensato con due figure, una donna e un fanciullo, fu realizzato da Civiletti a figura unica maschile17 (Fig. 3). Quest’ultimo provò a modellare la statua seguendo il progetto iniziale, ma «per quanto bella, essa non trovava da emergerle molto presso alla Nautica di Rutelli, onde, mutato pensiero, in pochi dì gli usciva di mano questo capolavoro»18. Così La Nautica (Figg. 4 – 5) assume le sembianze di una figura femminile seduta su una cima da ormeggio avvolta su se stessa, mentre con la mano destra sorregge una bussola (non più presente) e con l’altra direziona il timone (anch’esso attualmente assente) di una nave immaginaria. La posa del corpo arcuata, con la gamba sinistra leggermente distesa, dona alla scultura un movimento armonico. Il velo del lungo abito scivolato sulla spalla destra crea, dietro la sua schiena, una curva morbida che ricorda l’effetto del vento sui tessuti. Anche i capelli sono naturalmente mossi, in parte raccolti in uno chignon da cui sfuggono liberamente alcune ciocche. Il suo sguardo è deciso, sconfina oltre lo spazio e trasmette la sicurezza di chi conosce bene la via del mare. Il Lavoro (Figg. 6 – 7), invece, è rappresentato da una figura maschile e vigorosa, seduta su un basso sgabello, immortalata nell’atto di colpire col maglio il ferro posto sull’incudine davanti a lui. Il braccio destro è sollevato in alto, con la mano che stringe il pesante strumento da lavoro, nell’attimo in cui raccoglie le forze prima di colpire il ferro che tiene fermo con l’altra mano. Il corpo virile, i muscoli contratti, le linee anatomiche perfette e il volto con lo sguardo rivolto verso il basso concentrato nello sforzo fisico contribuiscono all’esaltazione stessa del lavoro.
Il maestoso progetto celebrativo per cui le due statue furono fuse, tuttavia, non venne mai realizzato e una sua versione, fortemente ridimensionata, prese vita tre anni dopo, non più come fontana ma come monumento civile nella piazza intitolata allo stesso Ignazio Florio. In esso non comparvero più le due sculture allegoriche, che rimasero ad arricchire il patrimonio artistico della famiglia Florio fino alla loro vendita in occasione dell’asta fallimentare con cui si concluse il periodo più felice di questa prestigiosa famiglia. Le due opere furono, prima, esposte insieme alla Mostra Regionale di Belle Arti, inaugurata a Palermo il 12 maggio 1895 in occasione del primo giubileo centennale dell’Orto Botanico, presso Villa Giulia. Entrambe riscossero un grande apprezzamento, Il Lavoro per la sua perfezione plastica e per la forza anatomica e gestuale, quasi poetica, del soggetto, La Nautica per la sua composizione armoniosa e per il bel volto della figura femminile, capace di ispirare calma e fiducia come un nocchiero ai suoi passeggeri19.
Nel 1935, durante la grande asta pubblica dei beni della famiglia Florio, fu solerte l’intervento del Comune per l’acquisto delle due sculture bronzee. La deliberazione del podestà Giuseppe Noto Sardegna rivelò l’interesse di salvaguardare sia Il Lavoro di Civiletti, sia La Nautica di Rutelli dalla speculazione dei privati, poiché ritenute entrambe di pregevole valore20. In un’altra delibera della stessa seduta si evince, inoltre, il progetto per cui l’acquisto fu finalizzato, ovvero la collocazione delle due statue nelle aiuole lungo il marciapiede orientale della villetta di piazza Castelnuovo, «onde dare degna destinazione a due statue in bronzo di pregevole valore artistico ed opere di due illustri scultori concittadini […] che meritano di essere meglio conosciute ed apprezzate dalla cittadinanza»21. In città non mancavano opere di pubblico arredo, ma nelle piazze avevano trovato collocazione principalmente sculture monumentali atte a celebrare personaggi e avvenimenti di un passato più o meno recente. In questo caso, invece, si manifestò un’attenzione rivolta più alla celebrazione degli artisti e alla loro memoria che ai soggetti rappresentati; questi ultimi risultarono, comunque, rappresentativi della cultura artistica dell’Art Nouveau propria di quegli anni, essendo espressione di una scultura simbolista e allegorica.
Il modo in cui l’iniziativa del podestà Noto Sardegna venne recepita dalla gente del luogo si legge tra le pagine del quotidiano “L’Ora” del 13 luglio 1935, dove fu pubblicata una lettera inviata al giornale dallo scultore Pasquale Civiletti22. In essa l’interesse dimostrato dal Podestà nei confronti delle due opere viene significativamente riconosciuto come «mecenatismo», non come una semplice iniziativa commerciale o politica, ma come il chiaro segnale di una rinnovata attenzione verso l’arte del tempo. Il gesto con il quale egli volle assicurare alla città la proprietà e il godimento delle due sculture tese, dunque, in maniera encomiabile, a soddisfare un’esigenza di decoro urbano ancora diffusamente avvertita, prova di una città desiderosa di arricchire le proprie strade con la sua eredità artistica. Questa eloquente testimonianza di interesse per i pubblici giardini si inseriva, inoltre, nel più vasto panorama di valorizzazione turistica, atta a rendere Palermo «una città sempre più carica di verdi seduzioni e sempre più ricca di attributi estetici»23.
Esattamente un anno dopo, nel 1936, il vice podestà Girolamo Fatta Del Bosco deliberò la collocazione di altri gruppi in bronzo nella villetta di piazza Castelnuovo, avendo gli scultori Pasquale Civiletti e Benedetto De Lisi Junior donato alla città due sculture raffiguranti rispettivamente I Monelli (Fig. 8) e Le Amiche (Fig. 9)24. Si trattò, dunque, di donazioni pervenute al Comune che si vollero destinare alla pubblica fruizione fuori dagli spazi museali, con soggetti rispondenti al coevo gusto per i temi della vita quotidiana e delle scene di genere con protagonisti donne e uomini del popolo, che dalla pittura si erano diffusi anche nella scultura. Dalla metà dell’Ottocento, infatti, il primato riconosciuto all’historia iniziò a mutare in seno alle nascenti poetiche del vero; si inserirono inediti argomenti di denuncia sociale e una prospettiva paternalista e filantropica propria della nuova borghesia, sottolineando la sofferenza e la miseria come nel caso del gruppo scultoreo di Pasquale Civiletti, o l’attenzione ai valori domestici della famiglia e della donna come nell’opera di De Lisi.
Il gruppo in gesso de I Monelli (o I senza tetto) venne esposto nel 1895 alla Mostra Regionale di Belle Arti di Palermo, ricevendo un tale successo da essere poi tradotto sia in marmo che in bronzo25, e nel 1898 fu presente all’Esposizione Nazionale di Torino26. La sua versione marmorea è tutt’oggi custodita a Palermo nel cortile dell’Istituto Infanzia Abbandonata Vittorio Emanuele III in viale delle Croci, un luogo che ben testimonia l’attenzione della famiglia Whitaker per l’assistenzialismo e l’educazione rivolti ai bambini più poveri27. L’opera in bronzo donata da Civiletti reca il titolo e la firma «Pasquale Civiletti fece nel 1904» (Fig. 10) e, come buona parte della produzione artistica del periodo, antepone l’elemento commovente a quello meramente estetico, colpendo lo spettatore per «quella sensazione di pietà che stringe il cuore, e richiamando gli uomini al dovere del soccorso agli abbandonati»28. I due bambini ‘senza tetto’, evidentemente molto poveri e infreddoliti, mal vestiti e senza scarpe, sono colti con gli occhi chiusi mentre cercano di riposare nonostante il freddo che li colpisce. Quello di sinistra, seduto in una posa raccolta e tesa, incrocia le braccia al petto per ripararsi, l’altro, rannicchiato, appoggia la testa coperta da un berretto al gradino della strada che fa loro da casa. L’effetto complessivo, intensamente realistico, suscita tristezza per la loro disagiata condizione, ma al tempo stesso una notevole dignità mista a fatalistica rassegnazione di fronte a un destino ostile. Il passaggio alle monumentali realizzazioni ‘di regime’ è testimoniato, invece, nel gruppo scultoreo di De Lisi, in cui i corpi delle due giovani donne (spesso indicate come Le Sorelle) sono privi del calore umano, immobili e mancanti di dinamicità, quasi come cristallizzati per opera di una terribile Medusa29. L’opera venne esposta alla Seconda Quadriennale di Roma tenutasi al Palazzo delle Esposizioni dal 5 febbraio al 31 luglio 1935, dove accoglieva i visitatori all’ingresso della sala 23 ͣ, con la sua «posa complicata, ma armoniosa», in cui De Lisi manifestava «un gusto perfetto nel sistemare i volumi dentro lo spazio in un accordo piacevolissimo nella sua calma armonia»30. Tra le due figure femminili, colte in un atteggiamento rilassato e confidenziale, quella di sinistra, seduta su un rialzo in marmo, sembra intenta ad ascoltare ‘le confidenze’ dell’amica, che appoggia le mani sul suo ginocchio sollevato, adagiandovi la testa con disinvoltura. Le gambe di quest’ultima, incrociate all’altezza delle caviglie, ricadono oltre il rialzo su cui è posta, creando un movimento sinuoso. La complicità tra le due figure muliebri, però, si contrappone ad un senso di solitudine e alienazione rispetto all’ambiente circostante da cui sembrano completamente avulse (Fig. 11).
Al fascismo si ricollega anche la terza e ultima scultura collocata contestualmente nella villetta per ragioni di simmetria31, il Balilla Rurale di Antonio Ugo, «saldamente piantato sulle sue gambette ossute, un po’ divaricate, baldo e gioiosamente fiero del lavoro compiuto»32 (Fig. 12). Tutto vibrante nel sentirsi investito di una missione sociale, espressione di una giovinezza sana e gioconda, scoppiettante di vita, il Balilla fu esposto alla grande mostra personale di Antonio Ugo, inaugurata il 18 novembre 1934 nelle sale del Circolo Artistico di Palermo presso Palazzo Utveggio, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’attività del maestro. Indossa la tipica divisa dell’Opera nazionale Balilla, l’organizzazione giovanile che raccoglieva i ragazzi dagli 8 ai 14 anni durante il ventennio fascista, mentre tiene tra le mani una falce. Oltre che onorare il duce, l’opera si presenta come un omaggio all’agricoltura, rievocata dalla falce e delle due spighe raffigurate tra i piedi del ‘piccolo falciatore’ (Fig. 13). Realizzata nel 1934, appartiene alla produzione più matura di un artista dalla carriera brillante e fa parte di un’ampia donazione fatta dallo stesso scultore alla Galleria d’Arte Moderna della città nel 193533.
Le cinque statue di piazza Castelnuovo (Figg. 14 – 15), nella loro valenza di decoro urbano, hanno assunto ben presto una dignità e un’importanza tale da ritenerne opportuna la conservazione anche durante la guerra, quando era diffusa la pratica di fondere opere bronzee che non avessero particolare valore artistico per alimentare l’industria bellica34. La sistemazione stessa delle cinque sculture, sottoposta alla volontà di assicurare e non turbare la simmetria della villetta, è il chiaro segnale di una profonda relazione che unisce le singole statue tra loro e con la piazza che le ospita. La richiesta di didascalie esplicative per il riconoscimento e l’individuazione di queste opere, come si evince in un documento del 1967, pone, inoltre, una delle questioni più care alla museografia, ovvero la necessità della progettazione di un sistema comunicativo che suggerisce la possibilità di considerare questo luogo un ‘museo scultoreo a cielo aperto’35.
Le operazioni di decoro urbano che hanno interessato la villetta di piazza Castelnuovo negli anni Trenta del Novecento costituiscono, dunque, il segnale di una città recettiva, impegnata nella diffusione della cultura, e testimoniano la prova della presenza di un’amministrazione comunale capace di cogliere il potenziale di una città ancora fortemente sensibile alla valenza decorativa della sua arte locale.
- Sul clima artistico e culturale della Palermo dell’Ottocento v. P. Palazzotto, Revival e società a Palermo nell’Ottocento – Committenza, architetture, arredi tra identità siciliana e prospettiva nazionale, Palermo 2020[↩]
- I gessi della Civica Galleria d’Arte Moderna, a cura di A. Greco; contributi M. De Micheli- A. Purpura, Palermo 1999, pp. 11-12.[↩]
- P. Barbera, Monumento e città nella Palermo post-unitaria, in L’architettura della memoria in Italia; cimiteri, monumento e città 1750-1939, a cura di M. Giuffrè, Milano 2007, p. 299.[↩]
- P. Gulotta, Lo Square nel Piano di Santa Oliva, in “Prime Pagine”, I, 1, Palermo 1981, p. 52.[↩]
- S. Valenti, Sulla costruzione del teatrino di musica di Piazza Castelnuovo, Palermo 1876, p. 3.[↩]
- F. Di Pietro, Salvatore Valenti: scultore palermitano (1835-1903), Palermo 1933, p. 25.[↩]
- R. La Duca, Il palco per la musica, in La città perduta, terza serie, Palermo 1977, pp. 50-51.[↩]
- S. Valenti, Sulla costruzione…, 1876, p. 3.[↩]
- G. Pirrone, Palermo, una capitale; dal Settecento al Liberty, Milano 1989, p. 48.[↩]
- C. De Seta-L. Di Mauro, Palermo, Roma 1980, p. 151.[↩]
- A tal proposito v. C. A. Alphand, Les Promenades de Paris, Paris 1873.[↩]
- F. Pollaci Nuccio, L’Esposizione Nazionale e le sue adiacenze, Palermo 1892, p. 68.[↩]
- AGDA, Fontana monumentale al senatore Ignazio Florio 1893-1897, s. 3-4-2.[↩]
- Ibidem.[↩]
- M.C. Sirchia-E. Rizzo, Il Liberty a Palermo, Palermo 1992, p. 46.[↩]
- P. Barbera, Monumento e città…, 2007, p. 301.[↩]
- AGDA, Fontana monumentale al senatore Ignazio Florio 1893-1897, s. 3-4-2.[↩]
- A. Lo Forte Randi, Mostra regionale di belle arti in Palermo, in “Natura ed arte”, XVI, 1894-95, p. 326.[↩]
- Ibidem, pp. 323-329.[↩]
- ASCPa, Deliberazioni del Podestà, 3382, 11 giugno 1935.[↩]
- ASCPa, Deliberazioni del Podestà, 3441, 11 giugno 1935.[↩]
- BCRS, “L’Ora”, 13 luglio 1935, p. 4.[↩]
- BCRS, “L’Ora”, 31 agosto 1935, p. 4.[↩]
- ASCPa, Deliberazioni del Podestà, 3203, 10 giugno 1936.[↩]
- L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani – scultura, Palermo 1994, p. 67.[↩]
- Esposizione Nazionale del 1898, Catalogo delle Belle Arti; maggio-ottobre, Torino 1898, p. 27.[↩]
- G. Blandi, La statuaria di Palermo, Palermo 1989, p. 245.[↩]
- L. Sarullo, Dizionario degli artisti…, 1994, p. 67.[↩]
- M.C. Di Natale, Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1934-1937; Cultura tra critica e cronache, Caltanissetta 2006, p. 139.[↩]
- Ibidem.[↩]
- ASCPa, Deliberazioni del Podestà, 3203, 10 giugno 1936.[↩]
- F. Pottino, Antonio Ugo. Scultore 1870–1950, Palermo 1956, p. 9.[↩]
- Galleria d’Arte Moderna di Palermo. Catalogo delle opere, catalogo a cura di F. Mazzocca-G. Barbera-A. Purpura, Cinisello Balsamo 2007, p. 408.[↩]
- ASBCAPa, s. 4-1-1, 1940.[↩]
- ASGAMPa, 26 gennaio 1967.[↩]