Antonio Cuccia

L’attribuzione ad Antonio Lombardo di un Crocifisso che sarebbe appartenuto al cardinale Carlo Borromeo

franco.brugno@libero.it
DOI: 10.7431/RIV30022024

Si tramanda che il Crocifisso bronzeo (Fig. 1), custodito nella sacrestia della chiesa di Santa Maria la Vetere a Licata, sia appartenuto a San Carlo Borromeo ed ivi portato dal capitano della fanteria spagnola don Pietro Pardo1. La notizia espone l’opera ad una legittima curiosità che eguaglia la stessa alta qualità della scultura. Non sappiamo quali circostanze abbiano indotto l’ufficiale spagnolo, credibilmente a capo della guarnigione posta a presidio della città di Licata, dopo la terribile esperienza del Sacco dei Turchi del 1553, a donare verosimilmente alla chiesa di Santa Maria di Gesù (già di Santa Maria la Vetere) così titolata nel 1589 quando venne concessa ai Frati Minori Osservanti2. Ignoriamo in quale circostanza il Pardo ne venne in possesso, presumibilmente durante un probabile soggiorno a Milano per servizio, data l’appartenenza della città alla Corona spagnola. C’è da chiedersi ancora se il capitano abbia acquisito il Crocifisso come reliquia del Santo (canonizzato nel 1610) o addirittura è da ritenersi un dono diretto del Borromeo per un probabile sostegno ricevuto nella contrastata opera di riforma della diocesi milanese. Se poi aggiungiamo l’intenzionalità del Pardo di donarlo proprio ai Frati Osservanti, che a Milano accolsero il Borromeo con bastoni, allora avremo toccato l’apice delle ipotesi.

Il Cristo (Fig. 2) (cm.42 x 25), raffigurato spirante, segue nella posa frontale una disposizione simmetrica ad eccezione del capo rivolto verso la spalla destra in contrappunto al risvolto del perizoma sul fianco sinistro. L’intonazione eroica del corpo, ligia alle proporzioni classiciste, cede ad un naturalismo episodico nella descrizione dei particolari ben evidente nell’espressione dolorante del volto coronato da un ramo di spine ritorto ed incorniciato dai boccoli dei capelli e dall’intreccio della barba.  Le mani riflettono le vibrazioni dolorose nella chiusura delle dita mentre i piedi congiunti con un sol chiodo supportano il peso delle ginocchia lievemente aggettanti.

L’eccezionale qualità del Cristo, mirabile nella ricerca di una bellezza ideale, riconoscibile nei lineari stilemi cinquecenteschi, rimanda alla cultura antiquariale maturata in area veneta già nella metà del Quattrocento grazie al binomio Mantegna-Donatello, che nel contesto padovano crea i presupposti per una svolta “moderna” in scultura senza inflessioni gotiche3. Protagonisti di questo processo in direzione esclusivamente classicista saranno gli esponenti di quella famiglia, che, data la provenienza, assumeranno il patronimico “Lombardo”: Pietro, il capostipite della famiglia, con i figli Tullio ed Antonio, che perfezioneranno in tale direzione la ricerca paterna nell’evocazione del mondo antico attraverso il culto delle forme perfette. In particolare, Antonio Lombardo, che nell’altare Zen (Fig. 3) in San Marco a Venezia, raggiunge nelle figure bronzee della Vergine e dei due Santi una sodezza disegnativa e materica, che denuncia piena padronanza del linguaggio classico, seppure in netta autonomia dai modelli antichi. Proprio questa sicurezza ideativa che Antonio dimostra nella realizzazione delle statue dell’altare sopra menzionato, realizzato intorno al 1506 poco prima della partenza dello scultore per Ferrara, mi porta a suggerire per il Crocifisso di Licata non solo la medesima paternità di Antonio ed anche la stessa data di esecuzione.

L’esame stilistico dell’opera, che condensa realismo e senso classico di eroismo, porta a non scartare le tangenze con le sculture del fratello Tullio col quale egli condivide la stessa temperie culturale, ma nel Crocifisso in questione si evincono i caratteri propri di Antonio individuabili nel più carico pittoricismo ed in una più animata partecipazione umana.  Peculiarità queste che già si riscontrano in Guido Mazzoni. Vedi a proposito il frammento del volto di un Cristo deposto nel Museo Civico di Padova, sicuro ascendente per la formazione del giovane Lombardo nell’elaborazione in chiave classicista dei dettami realistici. In tale dimensione si configura il Crocifisso bronzeo di Licata, qui riferito ad Antonio, ancora per la peculiarità per le superfici polite e lucenti, dove il gesto misurato nel dosaggio muscolare trova delle pause nei riccioli della capigliatura, elementi di un tocco decorativo, sicura espressione di una originalissima cifra personale. Già nell’altorilievo il Miracolo del bambino resuscitato nella Basilica del Santo a Padova, che Antonio Lombardo firma e data 1505, è possibile verificare un diretto riscontro col nostro Cristo nei tre profili virili caratterizzati da un realismo mitigato da un calibrato classicismo, nonché nei panni muliebri, articolati in fittissime pieghe, dove la strettissima aderenza al corpo ne asseconda il profilo. Ma sarà, ad ulteriore prova della sua paternità, la ricaduta del risvolto nel perizoma del Crocifisso, che risulta identico al panno sul trono della Vergine nel monumento Zen con la stessa cadenza ritmata nelle pieghe, a fissare l’esecuzione del nostro bronzo a quel fatidico 1506, poco prima dell’esperienza ferrarese del Nostro alla corte estense. La “leggenda”, che tramanda come il Crocifisso processionale usato da San Carlo Borromeo sarebbe stato portato in Sicilia da un capitano della fortezza spagnola, per quanto peregrina perché non documentata, trova nella storia dell’Isola degli agganci assolutamente non trascurabili che danno da pensare. Già un elemento accomuna la città di Milano al capoluogo siciliano: mi riferisco alla nomina di Marco Antonio Colonna, nel gennaio 1577, a viceré di Sicilia proprio quando nella città lombarda imperversava la peste (1576-77), quella stessa che vedrà prodigarsi l’arcivescovo Carlo Borromeo. Anche a Palermo negli stessi anni sopraggiungerà il morbo assieme alla fama del santo prelato, che, dopo pochi decenni dalla sua morte nel 1584, verrà canonizzato già nel 1610. Il culto verso San Carlo, patrocinato dalla presenza in città della comunità lombarda, sarà incentivato dall’arrivo nella corte palermitana di Anna Borromeo, sorella del santo e moglie di Fabrizio Colonna, figlio del viceré.

Le immagini del Santo si moltiplicheranno in città ed in provincia. Tra le più prestigiose cito quella di Pietro Alvino, che raffigura l’Elemosina di San Carlo Borromeo. Ma il quadro, che ci interessa per l’implicazione del nostro Crocifisso, è quello che raffigura la Processione penitenziale di San Carlo Borromeo durante la peste (Fig. 4), posto sull’altare maggiore della chiesa senatoriale di Sant’Antonio Abate a Palermo4. Sarà il nuovo parroco Vincenzo De Dominicis, subito dopo il suo insediamento, a promuovere, assieme alle modifiche di arredo interno, l’erezione del nuovo altare maggiore dedicato a San Carlo e già nel 1618 ne commissionerà il quadro, dopo averne approvato il disegno, a Vincenzo La Barbera e Nicasio Azzarello5. Vi si raffigura il Santo, in abiti cardinalizi, con gli occhi fissi sul crocifisso, che regge tra le mani, mentre incede tra la folla attorno a due isolati urbani, mentre, in primo piano, gli appestati occupano lo spazio assieme al popolo implorante.

Curiosamente l’opera verrà replicata per la chiesa di San Vito di Monreale, sebbene con stilemi innovativi secondo canoni naturalistici e spunti caravaggeschi, che chi scrive aveva attendibilmente collocato nella attività giovanile di Pietro Novelli con una datazione approssimativa intorno al 16216.

In entrambe le versioni spicca il legame tra il Santo ed il Crocifisso, che egli stringe tra le mani, quel Crocifisso che sarebbe lo stesso della nostra dissertazione e che lascia pensare che il De Dominicis conoscesse la storia in proposito riportata dalle fonti licatesi circa la destinazione finale del Cristo del Borromeo. Infatti qui, diversamente da molti dipinti di area lombarda, il Santo non concentra lo sguardo sulla stauroteca con la reliquia del Santo Chiodo ma direttamente verso il crocifisso. Di certo gioca a favore del tradizionale riferimento della scultura al Cristo scelto dal Borromeo, l’esecuzione testé dimostrata in territorio lombardo-veneto, nonché la sublime espressione dolente del volto, che, coinvolgendo emotivamente il sentimento, corrisponde ai canoni programmatici della propaganda controriformata, quella stessa oggetto di particolare attenzione da parte del cardinale Carlo Borromeo.

  1. L. Vitali, Licata città demaniale, Licata 1909, p. 253.[]
  2. C. Carità, I Conventi di Licata nella storia e nell’arte, Licata 1976, p. 22.[]
  3. J. Pope-Hennessy, La scultura italiana del Quattrocento, Milano 1964, pp. 108-119.[]
  4. A. Giuliana-Alajmo, Architetti regi in Sicilia e la loro sconosciuta opera nella Parrocchia di S..Antonio Abate a Palermo, Palermo 1955; A. Mazzè, Le Parrocchie (I luohi sacri di Palermo) intr. di Maurizio Calvesi, Palermo 1971, pp.157-205; G. Mendola, Otto secoli di storia, in La chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Palermo, Palermo 2020, p. 53.[]
  5. S. Sportaro, Quel “S. Carlo Borromeo” dopo 400 anni ha trovato i suoi autori, in “Kalos. Arte in Sicilia”, anno 24, n.4, ott.-dic. 2012, pp. 44-47.[]
  6. A. Cuccia, La prima maturità di Pietro Novelli. Contributi all’attività giovanile, in “Bollettino d’Arte”, n.108, 1999, aprile-giugno, pp. 19-56.[]