Gli argenti perduti della certosa di San Martino. Intorno a un reliquiario di Domenico Antonio Vaccaro (e a un rame del Solimena)
stefano.demieri@unisob.na.it
DOI: 10.7431/RIV30082024
Nell’estate del 1794, su disposizione di Ferdinando IV, il patrimonio degli argenti della certosa di Napoli venne in buona parte requisito. Tale confisca di oggetti preziosi, destinati alla fusione, fu solo una delle varie tappe attraverso le quali, tra il 1783 e il 1798, in particolare per effetto dei «decreti suntuari» e di altri «provvedimenti di emergenza, cosiddetti patriottici», le necessità belliche portarono lo Stato ad incamerare i prodotti in argento religiosi e profani della capitale e delle province del Regno, ad eccezione del Tesoro di San Gennaro e di pochissimi altri contesti, determinando così una delle più gravi perdite del patrimonio d’arte del Meridione1.
Il lungo atto notarile rogato in occasione della requisizione suddetta ci parla della consegna alla Reale Zecca di una gran mole di argenti appartenuti alla certosa partenopea, comprendente: «sei candelieri d’argento a getto, che servivano per l’altare maggiore»; «dodeci cornucopii d’argento, che servivano per le sei cappelle»; sei «candelieri a getto, detti della Madonna»; «venti candelieri d’argento a getto», «quattro croci d’argento», sei «carte gloria», trentadue «frasche» che «servivano per le cappelle»; «sei frasche a ventaglio […] per l’altare maggiore»; «cinque bacchette d’argento a piancia»; «l’incensiero grande a getto e tutto l’argento che abbelliva il reliquiario della Spina di Nostro Signore Gesù Cristo»; «la pedagna della statua della Madonna con i due puttini d’argento a getto, più il secchio d’argento che serviva nelle domeniche con l’aspersorio, più sei piattini d’argento, e la pisside grande a getto» e, infine, «la statua della Beatissima Vergine»2, quest’ultima coincidente con l’Immacolata fusa da Giovan Domenico Vinaccia nel 16803.
Di altri pezzi pregevoli che alcune fonti descrivono in San Martino non v’è traccia nell’elenco citato, sintomo del fatto che fu attraverso altri espropri che andarono perdute importanti opere come la straordinaria croce in argento (alta 9 palmi) di Antonio Gentili da Faenza, realizzata su commissione del priore Severo Turboli tra il 1593 e il 16034, o il reliquiario eseguito da Domenico Antonio Vaccaro di cui ci informano alcune testimonianze archivistiche. È una polizza rinvenuta da Gian Giotto Borrelli ad attestare che il 27 agosto del 1717 il poliedrico maestro napoletano ottenne 20 ducati dal procuratore della certosa don Bruno Gallinaro come saldo «di tutte le sue fatiche, accessi, assistenze, disegni, modelli e fatture, e di tutte le spese fatte per rame lavorato, e puttini, incastri di gioie, lavori d’argento, legature di pietre, oro, indoratura ed ogni altra qualsivoglia causa nessuna eccetta, così fatta da lui, come da esso fatta fare per l’ultimo reliquiario fatto in sua casa per la loro Certosa»5. Al medesimo reliquiario si riferiscono diversi passaggi di un inedito registro di conti, in cui risultano annotate spese e introiti derivanti dall’eredità del dottor Francesco Antonio Pisano, scomparso il 21 settembre 1716, il quale aveva lasciato numerosi oggetti in metallo prezioso, monete, medaglie e altri prodotti di pregio in eredità al complesso monastico di San Martino, luogo in cui egli trovò sepoltura6. Padre Onofrio Maria Rosso, esecutore testamentario di Pisano, registra una serie di spese effettuate subito dopo la morte del benefattore, tra cui quelle concernenti i lavori condotti nei palazzi che erano stati di sua proprietà a «Toledo» e a Chiaia o, fra le molte altre, quelle effettuate per la realizzazione della «maschera […] di detto signor Pisano» da parte del pittore Francesco Basile, specialista di ritratti7.
Diverse annotazioni riguardano gli introiti derivanti dalla sopraindicata eredità, come ad esempio i ducati incassati da Domenico Antonio Vaccaro, che aveva acquistato quattro anelli d’oro dal priore della certosa, don Giovanni Angelo Carideo, «mentre gli diamanti, rubini, smeralti che stavano collocati in dette anelle, furno riposti dal detto Vaccaro nel nuovo reliquiario che questo nostro molto venerando priore ha fatto nella nostra chiesa»8.
Significativi si rivelano gli elenchi di monete in argento e oro, ma anche di medaglie e «gioie» provenienti dalla donazione Pisano, quali quelle conservate «dentro una cassa di noce di lunghezza palmi quattro in circa et larga circa due» e in «due canestrini che stavano conservati dentro due grossi baugli di argentarie» che Onofrio Maria Rosso avrebbe ottenuto il giorno prima del trapasso del donatore9. Inoltre, il certosino dichiara di aver consegnato ai padri procuratori Biagio Pacifico e Bruno Gallinaro poco più di 52 «libre d’argento indorato» che sarebbero state vendute «al’incanto a diversi orefici» per poco più di 755 ducati, ed anche molte altre «libre» di argento destinate alla vendita, descrivendo, fra l’altro, «una cassetta tutta di ferro, e dentro di questa vi si riposero diverse gioie, anelle et tre collane tutte d’oro, una corona tutta d’oro di sei paste, tutta guarnita di robini con la sua medaglia a fiocco d’oro, et un’altra coronetta similmente di paste sei tutta d’oro»10.
Desta interesse particolare la «Nota di tutto l’oro, diamanti, smeralti, rubini et argento» consegnati a Domenico Antonio Vaccaro «acciò ne adornasse il nuovo reliquiario […] fatto fare nella nostra chiesa» dal priore Carideo, tra il 1716 e il 1717. Vaccaro era un artista di fiducia per i certosini, considerato che sin dal 1706, subito dopo la morte del padre Lorenzo, a lui era spettato l’incarico di completare le statue marmoree di quattro Virtù per le cappelle di San Bruno e di San Giovanni Battista avviate dal genitore; poco dopo, nel 1709, al maestro vennero richiesti i busti raffiguranti i santi Gennaro e Martino per due delle sovrapporte del chiostro maggiore, mentre nel 1713 eseguì i lavori della cappella di San Gennaro e dal 1718 intervenne nelle cappelle del Rosario e di San Giuseppe11.
Pur in assenza del manufatto, le notizie riguardanti la realizzazione del reliquiario vaccariano arricchiscono le conoscenze sul poliedrico maestro, al quale non a caso gli studi hanno rivendicato un ruolo rilevante nella storia dell’oreficeria partenopea di inizio Settecento, avendo egli lavorato a diversi modelli specialmente di statue monumentali. Tale competenza era maturata nell’ambito della bottega del padre Lorenzo sin dagli ultimi anni del XVII secolo12.
La «nota» suddetta elenca un notevole numero di manufatti in metallo prezioso a lui consegnati, quali uno specchio e un «baciletto» in argento, un «cannale con la sua catena d’argento che serviva per il collo d’una scimia», sei «piattini piccoli d’argento per pigliar sorbetta», sei «giarrette», una dozzina di «bottoni», «dodeci diamanti che stavano riposti in mezzo a 12 bottoni d’argento», quattro «verghette d’oro nelle quali vi erano collocati diamanti numero 4», ed anche un numero cospicuo di rubini, smeraldi e altre pietre rare13.
Gli oggetti in questione furono utilizzati dall’artista per la composizione di un reliquiario senz’altro di dimensioni considerevoli, collaborando con un argentiere di cui però i documenti noti non tramandano il nome14. La prassi del riuso di pezzi di oreficeria più antichi era piuttosto frequente, come è ben noto. Lo prova, ad esempio, la realizzazione di una croce argentea destinata alla chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, per la quale, nel 1713-1714, l’argentiere Giacomo Antonio Tosi, su un modello fornito dallo stesso Vaccaro, riutilizzò due statue in argento effigianti i santi Giacomo e Giovanni, una «croce con sua pedagna d’argento senza il crocifisso», «dodeci piange che stavano alli zoccoli di dette due statue, due armi di san Giacomo e quattro ciappe che stavano in un messale»15.
Sorprende il quantitativo davvero elevato di gioielli, medaglie, monete e ulteriori oggetti in oro e in argento lasciati ai religiosi di San Martino dal più volte citato Francesco Antonio Pisano, una personalità al momento sconosciuta16, forse però da identificare con il committente a un tal Giacomo Querio, nel 1672, «d’una pittura fattali da dentro e fuora ad una cassa di spinetto et cimbalo»17. E, così, il documento certosino risulta essere una nuova, rimarchevole testimonianza d’archivio sul ricco collezionismo di oggetti preziosi presso la classe borghese partenopea, orientata «verso l’argento per le qualità stesse del prezioso metallo, adattabile ad ogni moda e, in caso di necessità, rapidamente convertibile in denaro»18. Una propensione che, secondo quanto afferma Ferdinando Galiani nel celebre trattato Della moneta, aveva portato i napoletani, «quasi in tutto ne’ costumi agli antichi Spagnuoli rassomiglianti», a trovare «grandissimo piacere a conservare ripieni di antiche manifatture di argento i loro forzieri, che scrittorj e scarabattoli essi chiamano»19. Specialmente a causa delle requisizioni di fine Settecento a cui si è fatto cenno in apertura, purtroppo non si può che constatare la scomparsa quasi definitiva dell’argenteria profana partenopea di alta qualità20.
Inoltre, assume un valore particolare la notizia che tra gli oggetti consegnati ai certosini, e in parte anche venduti al Vaccaro, come si è visto, compariva pure una «cassetta d’argento» in cui era collocata «l’imagine di un piccolo Salvatore sopra rama pittato dal signor Francesco Solimeno, che adesso si è riposto dietro l’altare maggiore della nostra chiesa, di peso libre quattro, ongie due e mezza»21. E il Vaccaro avrebbe anche utilizzato per il citato reliquiario un «chirchetto d’oro dove vi erano collocati sessanta diamanti di fonno, e detto stava situato attorno la testa del detto Salvatore sopra rama». Il poco noto dipinto del Solimena a cui si fa riferimento, privato dell’incorniciatura argentea, venne pertanto riutilizzato come portella di tabernacolo sul retro dell’altare ligneo della certosa (fig. 3), un insieme di notevole complessità, definito a ragione «l’opera più significativamente ‘non finita’ del ’700 napoletano», a cui si era dato avvio agli inizi del secolo ma che avrebbe poi conosciuto significative manomissioni nei decenni successivi (Figg. 1 – 2)22.
Così, l’inedita testimonianza archivistica consente di precisare l’origine del rame (Fig. 3), il cui innesto nell’altare maggiore fu forse suggerito dallo stesso Solimena, che ne era stato progettista negli anni 1704-07 circa23. Contrariamente a quanto fin qui ipotizzato, il rame non è coevo alle tele solimenesche sistemate nella cappella dedicata al santo titolare della certosa (1723-1724)24, essendo anteriore al 1716, anno di morte di Pisano. Nato per la devozione privata, esso è da considerare di diversi anni precedente, e forse da connettere alla produzione dei primi anni del secolo, al tempo in cui il linguaggio del maestro risulta fortemente condizionato dalle ‘refluenze’ barocche di impronta giordanesca che si osservano in opere quali, ad esempio, le Storie di David e di Salomone per Filippo V e per l’Alcázar di Madrid (1706)25. Basti osservare le pennellate vibranti che definiscono i soldati spaventati in basso e il modo di frantumare il panneggio che avvolge l’anatomia del Risorto, tanto diverso da quello più classicheggiante del Cristo che compare nel Sogno di san Martino della cappella summenzionata26.
È assolutamente rilevante sottolineare le specificità originarie del dipinto, contraddistinto da una cornice di pregio che ne faceva un vero e proprio oggetto di oreficeria, in ispecie per la iniziale presenza intorno al capo di Cristo di un’aureola con sessanta diamanti. E non è da escludere che quella raffinata, perduta incorniciatura potesse essere stata disegnata dallo stesso Solimena, di cui sono ben noti i rapporti di collaborazione con i maestri argentieri27.
La storia delle arti decorative nel complesso certosino partenopeo rimane ancora in gran parte da sondare. Purtroppo, però, in relazione ai manufatti in argento, si tratta di una ricostruzione tutta documentaria. Come si è detto, del vasto patrimonio di argenti i certosini vennero privati sul finire del Settecento. E l’immagine desolante di un contesto ormai sprovvisto delle preziose dotazioni stratificatesi specialmente tra il Sei e il Settecento viene drammaticamente restituita da uno sconosciuto inventario degli arredi rimasti in San Martino nei primi anni dell’Ottocento, stilato dopo l’allontanamento dei religiosi dalla sede trecentesca28. L’importante documento descrive partitamente gli ambienti e le cappelle del complesso monastico, certificando infatti la conservazione di soli manufatti in ottone, talvolta «inargentato» o con «finimenti» di rame dorato, tra decine di candelieri e ‘frasche’, crocifissi, reliquiari, carteglorie, molti paramenti sacri, quali pianete, camici, stole, tovaglie, borse, tappeti, ma anche campanelli in bronzo, inginocchiatoi e custodie in legno, un dipinto con la Crocifissione, paliotti in seta e raso, messali e libri «per uso del coro», tre crocifissi in avorio, cinque statuette di santi in legno dorato, reliquiari in legno, scarabattole con varie immagini sacre, etc.29.
Nella sagrestia risultavano però presenti quattro calici in argento, un altro con coppa di argento e piede di rame, altri due con coppa di argento e piedi di porcellana e una piccola pisside in «argento indorata»; evidentemente si trattava degli oggetti che, risparmiati dalle confische borboniche, erano rimasti a disposizione dei padri per le celebrazioni30.
E, così, nel Tesoro vecchio sopravviveva «un reliquiario di argento a piancia», mentre nel Tesoro ‘nuovo’ comparivano ancora, fra l’altro, insieme a una statua lignea di Sant’Anna e della Madonna bambina, un altare dorato in legno, una «sfera di coralli», sei scarabattole grandi in ebano «con varie reliquie di santi, ornamenti e puttini indorati […]; diciotto altri reliquiarj situati in piccola forma nello stiglio del Tesoro a fianco di detto altare» e poco altro31. Erano queste le condizioni in cui versava il monastero in seguito alle massicce e dolorosissime perdite degli anni precedenti.
Dai dati disponibili si ricava che solo nel 1798, in meno di quattro mesi, la Zecca di Napoli aveva raccolto nel Regno circa un centinaio di tonnellate di argenti, sacri e profani, da trasformare in barre metalliche. Nei luoghi sacri, tali requisizioni avevano risparmiato esclusivamente i busti in argento dei santi patroni e lo stretto necessario per le funzioni religiose32.
Il rientro dei certosini a San Martino agli inizi del quarto decennio dell’Ottocento33 coincise con una fase di nuove acquisizioni o di riadattamenti e restauri di arredi più antichi. Raffaele Tufari, nel 1854, registra infatti nuovamente la presenza di argenti, come il «reliquiario con la porpora di Nostro Signore tutto incastrato a lapislazzoli, ed adorno di puttini d’argento che tengono in mano gli strumenti della Passione»; l’ostensorio «regalato nel settembre 1841 dal cardinale Francesco Serra de’ duchi di Cassano» o il reliquiario della Sacra Spina, donato da Giovanna I d’Angiò alla chiesa dell’Incoronata (di pertinenza dei certosini), nel Settecento attestato nella sacrestia di quell’edificio, in «un ostensorio» argenteo «a parte interiori elaborato»34. Tufari, però, parla di questa reliquia come di «una spina della corona di Nostro Signore intinta di sangue, riposta entro un fregio d’oro, con quattro colonnette spirali di lapislazzoli»35, a conferma dunque del fatto che il reliquiario in questione aveva perduto le parti argentee di cui testimonia il citato atto notarile del 1794.
Una parte dei nuovi arredi e di quelli superstiti del complesso monastico si intravede nel dipinto di Frans Vervloet del 1848 che illustra la cappella del Tesoro durante una funzione religiosa (Fig. 4). Sul lato sinistro, infatti, si osserva una notevole concentrazione di reliquiari, a ostensorio, a tabella, a braccio e a urna, in cui, forse, è da riconoscere qualcuno di quei «diciotto altri reliquiarj situati in piccola forma nello stiglio del Tesoro a fianco di detto altare» ricordati nel documento di primo Ottocento appena discusso36.
Tufari e Vervloet avevano frequentato quel luogo sacro in anni che di poco precedono la soppressione definitiva avvenuta nel 1866, fase contraddistinta da ulteriori dispersioni e dall’avvio della storia non poco travagliata del Museo Nazionale di San Martino.
Appendice
1) Archivio di Stato di Napoli (ASNa), Corporazioni religiose soppresse, 2368, San Martino37.
(c. 1r) Essiti. Spese fatte da me don Onofrio Maria Rosso per ordine del nostro molto venerando padre don Giovanni Angelo Carideo priore di questa Real Certosa di San Martino dalli 21 settembre 1716 giorno che passò a meglior vita il quondam dottore signor Francesco Pisano, come esecutore testamentario di quello, con dichiaratione, come tutte queste spese si sono fatte con denaro del’istesso signor Pisano […]. Dato a due portieri et a due scrivani la prima volta che si principiò l’annotatione delle robbe nel Palazzo di Toledo, d. 3 […]. Per il mancamento che fece Nicola il Schiavo nel Palazzo di Chiaia, sì per accesso del scrivano come per fare accomodare tre porte et mascature, d. 1.4.10 […]. Per un scrittorio fatto a modo di custodia trasportato in San Martino, quale fu da noi ricomprato docati 15, dato alli facchini d. 0.2.10. Per portatura di un quadro con la pittura di un Ecce Homo che fu condotto all’Incoronata, d. 5 […]. A Francesco Basile pittore dato docati per il banco di San Giacomo per la maschera che fece di detto signor Pisano, d. 4 […]. Al scrivano Pietro Tortora se gli sono pagati docati cinque per il banco di San Giacomo per sue fatiche che fece delle annotationi delli mobili di detto signor Pisano, d. 5 […].
Per haver fatto pulire un stucchietto di christallo di rocca et per far polire un altro stucchetto di rama indorato con cavalli et un officio piccolo della Madonna si è fatto polire la sopraveste d’argento, essendomi così ordinato dal nostro superiore per poi dover regalare dette coselle alla signora madre suor Maria Caterina Pisano mentre dalla medesima furno richieste, si è pagato il signor Giuseppe Volpe orefice, d. 0.4.10 […].
(c. 21r) Introito di tutto quel denaro che io don Onofrio Maria Rosso ho ricevuto in diverse volte per ordine del molto venerando padre don Giovanni Angelo Carideo, priore di questa Regal Certosa di San Martino, principiando dalli 21 settembre 1716, giorno che passò a miglior vita la buona anima del quondam signor dottor Francesco Pisano, et tutte queste infrascritte summe sono pervenute a questa nostra Certosa da tutta l’eredità di detto signor Pisano. […]
A dì 5 settembre 1717 ho ricevuto docati sei et un tarì dal signor Domenico Antonio Vaccaro, quali doveva a questa Certosa per l’oro di quattro anelle che gli furno date dal nostro superiore; mentre gli diamanti, rubini, smaralti che stavano collocati in dette anelle, furno riposti dal detto Vaccaro nel nuovo reliquiario che questo nostro molto venerando priore ha fatto nella nostra chiesa, e dette anelle si presero da tutte le gioie del quondam signor Pisano, d. 6.1 […].
A dì 21 febraro 1718 ricevuto docati dodeci per mano di fra Lorenzo Russo nostro converso, quali furno restituiti a questa nostra certosa dal signor dottor Titta Pacifico per haverli detto fratello restituiti due anelle d’oro, uno con diversi diamanti, e l’altro con uno grosso smaraldo, e sei diamanti, e dette anelle funno date in pegno dal detto Pacifico al quondam signor Pisano vivente per docati dodeci. Et perché detto Pacifico doppo trascorso più di un anno restituì quella summa che dovea al signor Pisano a questa certosa come sua erede da me don Onofrio Maria per ordine del mio superiore gli furno restituiti dette due anelle per mano del sopradetto fratello e detti docati 12 similmente da me furno depositti nella nostra cassa, d. 12 […].
Dichiaro io don Onofrio Maria Rosso come per ordine del molto venerando padre don Giovanni Angelo Carideo priore di questa nostra certosa di San Martino, tutta quella summa di denaro, così di monete d’argento come d’oro che furno lasciate a questo nostro monasterio dalla buona anima del quondam dottor signor Francesco Pisano, così dentro una cassa di noce di lunghezza palmi quattro in circa et larga circa due palmi, come dentro due canestrini che stavano conservati dentro due grossi baugli di argentarie, quali furno a me consignati dal sudetto defonto un giorno prima che il medesimo passasse a miglior vita, acciò l’inviasse in questa nostra certosa come sua erede. Questo nostro molto venerando padre priore si compiaccque consignare a me tutte detti argenti, oro, gioie e monete acciò le conservasse come esecutore testamentario di detto Pisano, et poi appresso mi è stato ordinato in diverse volte dovesse consignare così al venerando padre don Bruno Gallinaro procuratore delle lite come alla nostra cassa et ad altri le cose infrascritte […].
A dì 6 dicembre 1717.
Da me don Onofrio Maria per ordine del mio superiore furno cosignate alla nostra cassa le qui sottoscritte monete d’oro e d’argento. Doppie di Spagnia numero 43 e mezze a carlini 45 con cinque accine scarse, d. 195.3.15. Doppie romane numero 27. Doppie di Francia numero sei in uno numero 33 a carlini 44, con 64 acine scarse, importano d. 145.1. Doppie di Portogallo numero 3 importano d. 21. Zecchini numero 115, cioè uno zecchino di quaranta zecchini, due di dodeci, tre di diece et uno di cinque e l’altri semplici a carlini venticinque, con 36 acini scarsi importano d. 287.2.10.
Monete d’argento
Quattordice piastre romane, quattordeci testoni et sette giulii, importano d. 26.13. Quattro genovine scarse, importano d. 7. Una piastra livornina, importa d. 1.1 […].
Alla medesima nostra cassa ho consignato ancora le qui sottoscritte monete tutto d’oro e medaglie similmente tutte d’oro.
Un doblone genoese di dodeci doppie e mezza, d. 53.3.15. Un altro doblone genoese di dieci doppie e si valuta d. 43. Altre quattro doppie genovese di 2 doppie l’una, d. 17.1. Un’altra moneta mantuana con l’imagine di nostra Signora di doppie sei, d. 25.4. Ungari numero cento e dieciotto, cioè nove di diece l’uno, due di cinque e 3 di due e 12 semplici, d. 287.2.10; una moneta polacca di peso ungari quaranta, d. 100. Un medaglione della regina Christina di peso doppie diecedotto e mezza, d. 527.1.5. Un’altra dell’istessa di peso doppie nove scarse. Un medaglione di Ludovico XIII di peso doppie diecesette scarse38.
[A margine] Questi tre medaglioni si conservano dentro una cassetta di ferro dove stanno riposti molte cose d’oro, e detta cassetta sta nel 30, riposta nella cassa a tergo, comunque del nostro monasterio. Questa cassetta sta in deposito. Si deve notare et avertire come tutte le sudette monete d’oro e d’argento non sono state consignate alla cassa come in deposito, ma furono nella medesima introitati in denari contanti, per lo che non sono tenuti i cassieri pro tempore a dar conto del suddetto denaro come cosa a parte ma solo di quello ch’è resta di cassa, mentre dall’introscritto alla medesima cassa né meno si verifica esser stato il sudetto denaro introitato come pervenuto dall’eredità del sudetto Pisano, e questo si fe’ per giusti rispetti; come è noto e d’ordine de’ superiori et introscritti officiali respettive etc.
Similmente da me don Onofrio Maria sono state consignate al venerando padre don Biase Pacifico procuratore di casa libre quaranta nove et ongie nove ½ d’argento indorato, et dal medesimo furno consignate al venerando padre don Bruno Gallinaro procuratore delle lite, d. 49 et ongie 9 ½. Un’altra volta ho consignato al medesimo venerando padre don Bruno tre altre libre d’argento indorato, che in tutto sono libre cinquantadue et ongie nove e mezza, d. 52 et ongie 9 ½.
Tutto detto argento indorato detto venerando padre don Bruno per ordine del nostro superiore ha fatto vendere al’incanto a diversi orefici per docati settecento cinquantacinque, uno tarì e grana 17, et di tutto detto denaro ne ha dato lui riscontro, d. 755.1.17.
Dichiaro come per ordine del mio sudetto molto venerando padre superiore tengo appresso di me libre settantacinque d’argento, quanti si averando da vendere e se inpiegheranno o in capitale o in altro a beneficio di questa nostra certosa.
Si sappia come in un bauglietto foderato di montone rosso e centrellato vi sono riposti più di cinque libre d’argento et un orologgio e diverse anelle di argento et oro con diversi diamanti, rubini et altre pietre che in tutti sono tredici con due fibie d’argento indorate et uno stucchio con cocchiaro, brocca, cortello d’argento e vi è la manica al cortello con uno leone, tutte queste cose sono di Mimmo, seu Marco di Fiore, quali gli furno lasciate dalla beata memoria di suo avo.
Similmente dichiaro come per ordine del nostro molto venerando padre priore in presenza del venerando padre don Giovanni Vernuccio vicario di questa nostra certosa et del venerando padre don Innocenzo Casanova Antiquiore da me fu consignata alla nostra cassa una cassetta tutta di ferro, e dentro di questa vi si riposero diverse gioie, anelle et tre collane tutte d’oro, una corona tutta d’oro di sei paste, tutta guarnita di robini con la sua medaglia a fiocco d’oro, et un’altra coronetta similmente di paste sei tutta d’oro. E da noi medesimi furno pesate tutte dette cose, quali ascendano al peso di libre cinque, meno mezz’ongia, e detta cassetta fu serrata e sigillata in nostra presenza dal venerando padre don Giustino cassiero; et detta cassetta con tutte le cose sopradette si tengono in deposito nella sudetta nostra cassa, per doversi ademplire tutto quello che sta ordinato in una scrittura del quondam signor Francesco Pisano, quale sta riposta dentro l’accendata cassetta di ferro, et da me se ne conserva la copia et anche la nota di tutto che se ritrova in detta cassetta […].
(c. 30r) Nota di tutto l’oro, diamanti, smeralti, rubini et argento che da me don Onofrio Maria Rosso per ordine del molto venerando padre don Giovan Angelo Carideo nostro superiore ha preso dalle robbe che furno lasciate dal quondam signor dottor Francesco Pisano a questa nostra certosa di San Martino, et si sono consignate al signor Domenico Antonio Vaccaro acciò ne adornasse il nuovo reliquiario che detto nostro superiore ha fatto fare nella nostra chiesa.
Uno specchio d’argento di peso libre 2. Un baciletto d’argento liscio, due cocchiari, due brocche e due maniche di cortelli usati d’argento di peso libra una et ongie 5. Un cannale con la sua catena d’argento se serviva per il collo d’una scimia, di peso ongie sei et un trappeso. Una cassetta d’argento dove stava collocato l’imagine di un piccolo Salvatore sopra rama pittato dal signor Francesco Solimeno, che adesso si è riposto dietro l’altare maggiore della nostra chiesa, di peso libre quattro, ongie due e mezza. Sei piattini piccoli d’argento per prender sorbetti, di peso libra una, un’ongia e mezza. Sei giarrette d’argento liscie similmente per pigliar sorbetta, di peso nove et una quarta. Bottoni 12 d’argento di peso un’ongia e mezza. Tutto detto argento importa libre nove, ongie sei, una quarta et un trappeso.
Similmente ho consignato al sopra detto signor Vaccaro l’infrascritte cose quali ancora si sono riposte al sopra nominato reliquiario. Un chirchetto d’oro dove vi erano collocati sessanta diamanti di fonno, e detto stava situato attorno la testa del detto Salvatore sopra rama. Altri dodeci diamanti che stavano riposti in mezzo a 12 bottoni d’argento. Similmente ho consignato al detto signor Vaccaro quattro verghette d’oro nelle quali vi erano collocati diamanti numero 4; smeraldi numero 18; rubini numero 10. Nella cornicetta che stava attorno all’accendato Salvatore vi erano riposti altri diamanti numero 6; rubini numero 31; granate numero 10; pietre torchine numero 12.
Tutto dett’oro e gioie mi fu imposto che fussero consignate al sudetto signor Vaccaro acciò quello ne adornasse il detto reliquiario, e così si esequì.
Un’altra volta me fu ordinato dover prendere dalle robbe del quondam signor Pisano qualche galanteria, essendo richieste dalla molto reverenda madre suor Maria Catarina Pisano figlia legitima del detto defonto al nostro molto venerando padre priore per volerle regalare alla figlia del signor dottor Leone Cesario sua nipote, stan che quella si casò et per ordine del sudetto mio superiore gli fu dato una verghetta d’oro con sette diamanti piccoli che fu valutata docati otto, un officio piccolo della Madonna con la coverta d’argento di valuta docati tre e uno stucchietto di christallo di rocca di valuta docati due; et tutte dette cose importando docati 13.
Similmente nel mese di dicembre 1718 le due figlie naturali di detto quondam signor Pisano, monache nel conservatorio di Santa Maria de Visita Povere havendo fatto molte istanze al nostro molto venerando padre priore acciò si compiacesse inviarli uno paro di candelieri d’argento per ciascheduna et due orologi, il sudetto superiore per contentarli in qualche parte mi comandò che gli mandasse due orologi che vi erano le casse di christallo di rocca e due tabacchere di tartaruca usate, quali dette mostrine e tabacchiere furno valutate docati sette e da me se li mandorno l’anno passato 1718 […].
Nel’anno 1717 mentre il venerando padre don Innocenzo Casanova se ritrova monaco claustrale con licenza del nostro molto venerando padre priore da me gli fu improntato un orologio che sonava l’ore alla spag[n]iola, e detto era composto con due cassette d’argento, una trasforta e l’altra liscia, quale se ne serviva vivente il quondam signor Francesco Pisano, né ancora sono li 20 agosto 1719 mi è stato restituito.
Per ordine del nostro molto venerando padre convisitatore da me don Onofrio Maria si sono dati docati diece di contanti al venerando padre don Innocenzo Casanova procuratore delle lite, quali da esso furno pagati al signor secretario del Sacro Regio Consiglio per aggiustare il ius sententiae che da noi si doveva come eredi del quondam signor Pisano, e detti docati 10 si sono presi da alcune robbe vendute per ordine del detto nostro superiore quali similmente erano del detto quondam Pisano.
Similmente per ordine del detto mio superiore ho dato al medesimo venerando padre don Innocenzo una tabacchiera d’argento tutta sigillata e indorata da dentro di peso ongie tre meno mezza quarta in circa, e detto venerando padre don Innocenzo dice che con licenza del nostro superiore la voleva regalare al signor Antrea Canale per l’assistenza che ha fatto per la nuova gradiata si è fatta all’ospitio dell’Incoronata.
Nota di quelle robbe che [per] ordine del nostro molto venerando padre priore da me sono state vendute a diversi.
Un cimbalo grande del quondam signor Pisano si è venduto docati 22.1.10. Uno spinetto piccolo si è venduto docati diece, però si sono pagati carlini 9, diece al ci[m]balaro per accomodarlo, e però restano docati nove. Uno cortiello ricamato si è venduto docati 8. Otto cocchiarini d’argento per prendere surbetta docati 4. Per dodeci medaglie d’argento romane, cioè sei grosse e sei piccole, docati 12.1039.
(c. 34r) Dichiaro io don Onofrio Maria Rosso come per ordine del molto venerando padre don Giuseppe Nardelli mio superiore ho ricevuto circa li 10 di novembre 1713 dal magnifico dottor signor Francesco Pisano docati tremilia di contanti, et da me furno consignati alla nostra cassa in tempo che era casciero il venerando padre don Giovanni Vernuccio, e detti docati 3000 dal nostro monasterio furno restituiti alla certosa di San Lorenzo della Padula col peso però che questa nostra certosa dovesse darne docati novanta l’anno al sudetto signor Pisano sua vita durante a ragione di tre per cento, mese per mese, et tutto ciò si è eseguito da me puntualmente principiando dalli quindeci di novembre 1713 sino alli 15 di settembre 1716 […].
Per ordine del medesimo [priore] ho consignato al venerando padre don Giacomo Cesare sacristano una bellissima tovaglia di seta di color cremosino lavorata con ricamo d’oro.
Per ordine del sopradetto nostro molto venerando padre priore una volta ho venduto sei cocchiarini piccoli per prendere cecolata valutati docati quattro […].
Similmente ho venduto per ordine di detto nostro superiore uno spinetto piccolo apprezzato per docati diece, però si sono pagati carlini diece al ci[m]balaro che l’accomodai, et si sono riceuti docati nove per complimento di detti docati dece, 9.
Ancora per ordine del sudetto superiore si è venduto un ci[m]balo docati ventitré, et al ci[m]balaro che ha procurato di farlo smaltire se gli sono regalati carlini cinque, sì che sono restati netti in nostro potere docati 22.2.10.
Essendo rimaste dodeci piastre romane in mio potere del monet[ier]e d’argento lasciate dal quondam dottor signor Francesco Pisano, cioè sei valutate a carlini 14 l’una et sei altre più piccole valutate a carlini 7 l’una, importavano docati 12, tarì 3 di moneta di regno, quali 12 piastre si sono cambiate per ordine del mio superiore et la valuta di quelle che inportano docati 12 sono rimaste in mio potere per doverli spendere agl’ordini del mio superiore in beneficio del commune, 12.3.
Un’altra piastra d’argento indorata valutata per docati otto e un tarì si è cambiata per ordine del detto nostro superiore. Similmente ho venduto uno violino vecchio per docati tre, né se ne è possuto aver più.
Robbe vendute importano docati 67.1.10.
Essiti.
[…]
(c. 40r) Dichiaro io don Onofrio Maria Rosso come avendo richiesto cautela di tutto il denaro d’argento contanti, di fede di credito, di doppie e zecchini, argenti indorati et d’altre libre 75 e più di argento, e di diverse gioie et anelle e mobili, quali in diverse volte da me sono state consignate a diversi, tutto per ordine del nostro molto venerando padre don Giovanni Angelo Carideo nostro superiore, quali furno lasciate in beneficio di questa Real certosa di San Martino come erede del quondam dottor signor Francesco Pisano et a me consignate come esecutore testamentario. Dal sopradetto mio superiore mi fu fatta una nota di sua propria mano e fu a comandarmi che dovesse notarmeli in questo modo, videlicet per mia cautela.
Per tanti esatti dal venerando padre don Bruno Callinaro procuratore delle liti, come dall’inventario appare, per la vendita de mobili, argento indorato, esattioni ed altro ed impiegato nella fabrica della casa a Porta Medina, e restanti netti per noi docati 2148.3.
Per tanti contanti in oro ed argento, che la buona anima molto tempo prima della sua morte m’havea dato, d. 2037.3.11. Quali si sono spesi per Sparano, Vaccaro, Patiente e Pessolani, d. 4186.1.11. […]. Per 24 sedie di porta nova, setti quadri, un cembalo ed uno spinetto, un organo, una cartera, 34 ferze di morcatello, un Ecce Homo alla chiesa ed uno alla cella di Mimmo, tre mule, un scrittorio di Venetia, come dall’apprezzo, d. 471. Per lo parato, trabacca e due scrittorii della Galleria, d. 300. Argento e gioie poste al nuovo reliquiario e per un travacchino di portanova, d. 129. […]
Per la gioia e collana riposte alla statua del nostro padre San Bruno, d. 800. Argento bianco da vendere libre 75 et ongie 2 […]. Anella e gioie e catene e tre medaglioni d’oro stanno in cassa in deposito per farne a suo tempo la volontà del testatore.
Noi sottoscritti cassieri dichiaramo aver ricevuto dal venerando padre procuratore don Onofrio Maria Rosso una cassa chiusa et un baullo sigillato, le chiavi de’ quali sono appresso il medesimo essendo stati a noi consignati così chiusi et sigillati come sopra, e nelli medesimi vi sono, conforme asserisce il medesimo, libre d’argento bianco lavorato settantacinque e più; quali furono lasciati dal quondam dottore Francesco Antonio Pisano fra gli altri beni ereditarii lasciati alla nostra certosa, et per sua cautela l’abbiamo fatta la presente ricevuta, certosa di San Martino li 20 giugno 1720. Don Ambrosio cassiero affermo ut supra, don Nicolò Maria cassiero affermo ut supra.
Per cautela delli sopra detti venerandi cassieri ed anche mia, dico come per ordine del nostro molto venerando padre convisitatore a dì 6 novembre 1720 in sua presenza si aperì il sopradetto bauglio sigillato e se ne prese un trapenaturo d’argento di libre ed anche uno stuchio grande lavorato alla turchesca d’argento, con tre cortelli con le maniche d’avolio, per donarli al signor dottor Giuseppe Fiano, per haverci favorito per la causa del Gaudo.
Si sono anche levati altri argenti per fare le croci alle cappelle della chiesa.
2) ASNa, Corporazioni religiose soppresse, 2421
Nota degli utensili e sagri arredi rimasti esistenti nel soppresso monastero di San Martino di Napoli dopo la consegna fatta al reverendo don Francescantonio Crispo d’Oria decano della Real Cappella e cappellano di Camera di S.M.D.G., cioè nel monastero di San Martino,
Cappella detta sagrestia della Panella: quattro candelieri grandi di ottone inargentato e quattro piccoli; quattro frasche grandi con loro buccari similmente di ottone inargentato; quattro piccole frasche come sopra; un crocifisso di ottone inargentato con pedagna di legno con foglia di tart[ar]uca; cinque pianete feriali di portanova de’ seguenti colori, cioè una bianca, altra rossa, altra verde, altra violacio ed altra negro con loro finimenti; un velo, stola, manipolo e borsa di drappo in oro con francia; sei cossini differenti; un tappeto di folbone di diversi colori con bordo di seta gialla; un ginocchiatojo vecchio di noce; un quadro dinotante la Santa croce con le Marie in piedi e lastra in avanti; due candelieri di legno indorato a mistura con pannetto avanti; un campanello a tre con ferro nel muro; un panno per covrire l’altare.
Cappella sita dentro l’appartamento del Priore: una pianeta; un camice; un cossino ed un ginocchiatojo vecchio.
Cappella della Foresteria di sopra: quattro candelieri di ottone; quattro frasche con piccole giarre di ottone; tre cossini vecchi; un parato di ferse attorno.
Nel Tesoro della chiesa: una sfera di coralli; una pedagna di legno indorato; cinque quadretti rigamati in seta con cornice di legno indorato; una statua di Sant’Anna di legno con piccola statuetta di Maria Santissima; un altare di legno indorato; sei scarabatti grandi di ebbano con varie reliquie di santi, ornamenti e puttini indorati; sei altri scarabatti più piccoli dell’istessa materia; diciotto altri reliquiarj situati in piccola forma nello stiglio del Tesoro a fianco di detto altare; un panneggio di damasco cremisi con cornice indorata che cuopre i suddetti reliquiarj; un pallio di amoer semplice; ventisei rami di figure diverse; una cassa con due scatolette di pietre dure per formar l’altare; un orologio di smalta e sfera con varie pietre fine e pedagna dell’istessa materia; un giardinetto di ottone indorato.
Nel Tesoro vecchio: un reliquiario di argento a piancia; due sedie di legno coverte di velluto cremisi con galloni d’oro.
Nella sagrestia della chiesa di San Martino, pianete: tre pianete di stoffetta di Francia col fondo bianco con galloni d’oro; tre altre di amoer celeste rigamato in oro; altra di raso lattino; altra di amoer rigamato in oro; tre altre di amoer a due faccie con piccolo rigamo d’oro; altra di drappo color cremisi; tre altre di drappetto bianco con galloni d’argento.
Paliotti: uno di raso celeste con coralli; altro di seta con galloni d’oro; quattro portieri diversi; una coverta di amoer falso per l’altare maggiore e due altre più piccole.
Cossini per gli altari: tre cossini di classè in argento con galloni d’oro; altri cinque di amoer color celeste rigamato in oro; altri tre di stoffetta color bianco con galloni d’argento.
Calici: quattro calici di argento; altro colla coppa di argento e piede di rame; due altri con coppa di argento ed i piedi di porcellana; una pisside piccola di argento indorata; diciotto camici arricciati con i loro ammitti; otto cincoli di seta di varj colori; un parato composto di quarantadue ferse di rasino falso color giallo per covrire lo stipo di detta sagrestia; quattro cotte.
Chiesa di San Martino, nella cappella di San Nicola: una custodia di legno guarnita di tartaruca e portellino di rame indorata con croce sopra e crocifisso simile; sei candelieri di ottone; sei frasche di fiori colle giarre di ottone; una carta di gloria con finimenti di ottone; due reliquiarj di ottone indorato; sei candelieri di ottone indorato per l’altare maggiore più piccoli; tre pianete di armesino di varj colori; altre quattro di amoer damascato color verde con loro cossini; quattro parati di portieri di damasco, cioè il primo rosso, il secondo bianco, il terzo violaceo e l’ultimo verde; due cossini di amoer verde; altri due di amoer giallo frascheggiato; un parato di frasche di fiori colle rispettive giarre di rame indorato; tre tappeti per gli altari; sette tovaglie di tela di lino per l’altare; otto camici colli rispettivi ammitti di tela di lino con pezzilli; sei cincoli; quattro palle; sei manutergi; undeci pezzi di velo giallo per ornare la chiesa in tempo delle quarantore; trentatré altri pezzi di velo color rosso; cinque portieri per l’altare di amoer di Francia con galloni d’oro; varj buccheri di stagno per le quarantore; dieci libri per uso del coro.
Nella cappella della Santissima Vergine Assunta: quattro candelieri di rame indorata; una croce di legno con pedagna e suo crocifisso, e finimenti di rame indorata; una carta di gloria con finimenti di ottone; una bacchetta di ottone sotto l’altare; due tappeti; quattro cossini, uno di amoer negro, altro di damasco rosso, altro color violaceo ed il quarto di color bianco; un camice di tela di lino; una tovaglia con pezzilli; una coverta di portanova color rosso per l’altare; un messale.
Nella cappella di San Bruno: quattro candelieri di ottone indorato; una croce di legno e sua pedagna col crocifisso e finimenti di rame indorata; una carta di gloria con suoi finimenti di ottone; una bacchetta di ottone sotto l’altare; due tappeti; quattro cossini, uno di amoer negro, l’altro di damasco rosso, il terzo di color violaceo ed il quarto bianco; un camice di tela di lino; una tovaglia con pezzillo per l’altare; un messale; una coverta di portanova per l’altare.
Nella cappella di San Gennaro: quattro candelieri di ottone indorato; una croce con sua pedagna di legno e finimenti indorati; una carta di gloria con finimenti di ottone; una bacchetta di ottone sotto l’altare; due tappeti; quattro pianete, cioè una di amoer negro, l’altra di damasco rosso, l’altra di color violaceo e la quarta di color bianco; quattro cossini simili a dette pianete; un camice di tela di lino; una tovaglia con pezzillo per l’altare; una coverta di portanova color rosso per detto altare; un messale.
Nella cappella di San Giuseppe: cinque pianete, cioè una di amoer bianco, altra negra, altra damascata rossa, altra violace ed altra verde; cinque cossini a norma di dette pianete; un camice; un messale; quattro candelieri di ottone; quattro frasche di seta con giarre di ottone; sei candelieri piccoli anche di ottone; uno scarabatto di legno con crocifisso sopra d’avorio; due statuette di legno indorate, cioè una dinotante santa Barbara e l’altra sant’Irene; una carta di gloria con legno indorato; una tovaglia dell’altare e sopraveste di portanova; un tappeto.
Nell’altare di San Michele: quattro candelieri di ottone; quattro frasche di seta con giarre di ottone; una croce col crocifisso, due statuette e finimenti di ottone; una carta di gloria anche con finimenti di ottone; una tovaglia bianca per sopra l’altare e sopraveste di portanova; quattro pianete, cioè una violace, altra bianca, la terza rossa e la quarta negra domascata con loro rispettivi coscini; un camice di tela di lino; un messale.
Nella cappella di San Martino: una croce di legno con crocifisso e finimenti di rame indorata; quattro candelieri di ottone indorato; quattro frasche simili; una carta di gloria con finimenti di ottone; una bacchetta sotto l’altare di ottone; due drappetti; quattro pianete, una di amoer negro, un’altra di damasco rosso, la terza violace e la quarta color bianco fiorato; quattro cossini simili; un camice di tela di lino; una tovaglia con pezzilli e coverta di portanova color rossa; un messale.
Nella cappella di San Giovanni Battista: una croce di legno con crocefisso e finimenti di rame indorato; quattro candelieri e quattro frasche di ottone indorato; una carta di gloria con finimenti di ottone; una bacchetta per sotto l’altare di ottone; due drappetti; un messale; una tovaglia con pezzilli e coverta sopra di portanova color rosso; un camice di tela di lino; quattro pianete, cioè la prima di amoer negro, la seconda di damasco rosso, la terza color violace e la quarta fiorata bianca, e quattro cossini simili.
Nella cappella di Sant’Ugo: una croce di legno con crocefisso e finimenti di rame indorato; quattro candelieri e quattro frasche di ottone indorato; una carta di gloria con finimenti di ottone; una bacchetta per sotto l’altare di ottone; due drappetti; un messale; una tovaglia con pezzilli e coverta sopra di portanova color rosso; un camice di tela di lino; quattro pianete, cioè la prima di color negro, altra di color rosso, le terza di color violace e la quarta bianca, con quattro cossini simili.
Nella cappella del Santissimo Rosario: due statuette di legno indorate dinotantino san Vincenzo e l’altra santa Rosa; otto candelieri di ottone; quattro reliquiarj sopra legno indorati; un scarabatto indorato con reliquia dentro; una carta di gloria guarnita di ottone; una tovaglia di lino per l’altare; una sopraveste di portanova; un tappeto; quattro parati, il primo color bianco, il secondo rosso, il terzo violace, il quarto negro con loro cossini simili; un camice; un messale; una lampade di rame inargentato con pottini di ottone indorato.
Nella cappella della Maddalena: un crocefisso di avorio sopra legno negro; una statovetta della Concezione con piramide di legno indorato; dieci candelieri di ottone; dieci frasche di seta con giarre di ottone; una tovaglia per sopra l’altare con veste di portanova; un tappeto.
Nella cappella dell’Infermeria: un parato di frasche di ottone indorato in argento… 4; candelieri simili… 4; una croce di legno con crocefisso di ottone; un’immagine di Maria Santissima del Carmine con cristallo avanti e corona in testa indorata; un cossino; un camice; una carta di gloria; una lampade di ottone indorata; un panno per covrire l’altare; un crocefisso sopra legno d’avorio; un pannetto; due frasche di fiori; un quadro con cornice indorata; un scarabatto coll’immagine del Carmine e corona in testa di argento; un campanello di bronzo ed altro più piccolo; una tovaglia per il lavamano.
Nel passetto della sagrestia: due tavolini di radice di noce, sopra de’ quali una repetizione con cassa di legno e pedagna indorata, ed un scarabatto di San Martino di legno e pedagna indorata. Nel lavamano della detta sagrestia due ginocchiatoj di noce, due scarabatti, in uno vi è la statua di legno del Santissimo Bambino, vestito di drappo, e nell’altro una statua anche di legno della Beata Vergine del Carmine con Bambino nelle mani vestito di drappo.
- R. Causa, L’arte nella certosa di San Martino a Napoli, Cava dei Tirreni-Napoli 1973, pp. 84-85. Sul tema cfr. in particolare E. Catello-C. Catello, Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo, Napoli 1972, pp. 19-28; E. Catello-C. Catello, Argenti, in Civiltà del ’700 a Napoli: 1734-1799, catalogo della mostra (Napoli 1979-1980), Firenze 1980, II, p. 217; E. Catello, L’arte argentaria napoletana nel XVIII secolo, in Settecento napoletano. Documenti, a cura di F. Strazzullo, Napoli 1982, p. 48; C. Catello, Tre secoli di argenteria napoletana, in Tre secoli di argenti napoletani, catalogo della mostra (Napoli 1988), a cura di A. Caròla-Perrotti e C. Catello, Napoli 1988, pp. 17-18; E. Catello, Argenti Napoletani del Seicento. Considerazioni su documenti inediti, in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi e documenti 1998, Napoli 1999, p. 7.[↩]
- Archivio di Stato di Napoli (ASNa), Corporazioni religiose soppresse, n. 2143, F. 23 N. 18, Istromento fatto colla fedelissima città di Napoli alla quale si diedero parte degl’argenti della nostra chiesa ed impiegato il capitale di ducati 16755 per soccorso delle publiche necessità al 4 per cento. Dentro vi sono le note di detti argenti, peso etc., 6 settembre 1794, atto notarile di Giovan Battista Girardi, cc. 437r-460v. L’elenco menzionato è compreso nella «Nota dell’argento consegnato al nostro venerando padre procuratore don Dionisio Pugliese per fondersi secondo l’ordine auto dal reverendissimo padre priore don Martino Cianci…», cc. 439r-439v.[↩]
- R. Causa, L’arte…, 1973, p. 84 (lo studioso riporta alcuni stralci dell’atto notarile del 1794, pp. 112-113, nota 170).[↩]
- S. De Mieri, Don Severo Turboli e il cantiere della Certosa di Napoli: precisazioni su Giovanni Antonio Dosio, Lorenzo Duca, Ruggiero Bascapè, Antonio Gentili da Faenza e Pietro Bernini, in “Il Capitale culturale”, 26, 2022, pp. 24-26, col rinvio ai documenti e alle fonti, tra le quali assume un’importanza assai rilevante L. Catalani, Discorso su’ monumenti patrii, Napoli 1842, pp. 68-69, che ricorda un disegno della croce di Pietro Saja, realizzato poco prima che i padri decidessero di destinare «quel metallo» «ad altro uso».[↩]
- G.G. Borrelli, Lorenzo Vaccaro, Giovan Domenico Vinaccia, Domenico Antonio Vaccaro: modelli per argenti, argenti come modelli, in Cartapesta e scultura polimaterica, atti del convegno (Lecce, 9-10 maggio 2008), a cura di R. Casciaro, Galatina 2012, p. 147, nota 12.[↩]
- Il documento è parzialmente trascritto in Appendice, n. 1.[↩]
- Su di lui cfr. in particolare B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742-45, ed. commentata a cura di F. Sricchia Santoro e A. Zezza, Napoli 2017, III (parte I), p. 715; A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e dintorni, parte 1.1, Artisti e artigiani A-L, ed. XI, 2023, p. 948, in www.fedoa.unina.it. Forse è dello stesso pittore una Sacra famiglia firmata e datata 1710 in Santa Teresa a Massa Lubrense (Na) (scheda OAP1500065462).[↩]
- Cfr. Appendice, n.1.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Su queste imprese cfr. R. Causa, L’arte…, 1973, pp. 75-79; R. Lattuada, Domenico Antonio Vaccaro, pittore, scultore e decoratore, “ornamento della sua patria”, in Domenico Antonio Vaccaro. Sintesi delle arti, a cura di B. Gravagnuolo e F. Adriani, Napoli 2005, pp. 33-49. Per una panoramica sull’artista, insieme agli scritti di G.G. Borrelli, più volte qui citati, cfr. principalmente V. Rizzo, Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro. Apoteosi di un binomio, Napoli 2001; A. Russo, Vaccaro, Domenico Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCVII, Roma 2020, pp. 671-678.[↩]
- Sul ruolo di Domenico Antonio Vaccaro autore di modelli tradotti in argento cfr. in particolare G.G. Borrelli, Domenico Antonio Vaccaro autore di modelli per argenti, in “Antologia di belle arti”, 21-22, 1984, pp. 127-135; C. Catello-E. Catello, Scultura in argento nel Sei e Settecento a Napoli, Sorrento 2000, pp. 39-41, 96, n. XXXVIII; M. Confalone, R. Catello in Giubili e Santi d’argento, catalogo della mostra (Napoli 2000-2001), Napoli 2000, pp. 32-35, nn. 5-6; G.G. Borrelli, Lorenzo Vaccaro…, 2012, pp. 143-147.[↩]
- Appendice, n. 1.[↩]
- Il documento di cui si discute va considerato insieme alla «Nota de argenti del dottore Francesco Antonio Pisano», senza data (ma verosimilmente del 1716-17 circa), confluita in un differente faldone delle carte appartenute alla certosa partenopea: ASNa, Corporazioni religiose soppresse, 2092, in cui sono elencati, con il loro valore economico, molte decine di oggetti, tra saliere, brocche, «sfrattatavole», sottocoppe, candelieri, piatti, fiaschi, «carrafoni», bacili, canestre, acquasantiere, coltelli, cucchiai, cioccolatiere, bicchieri, «giarre», «pavoni d’argento», tegami, «pignatelli» ed anche una «statua de argento con pedagna, frasche e figure de San Sebastiano […], due statue de argento con fiori e figure, una de Sant’Antonio, l’altra de San Francesco di peso di libre sette et onse otto […], quattro altre statue de argento di peso de libre 12 et onse 6 con figure de San Pietro, San Paolo, San Gennaro e San Nicola […], uno Crocifisso d’ebano guarnito de argento […], un Presepio de argento […], una fontana d’argento con cristalli […], una canestrella piccola de Venetia con manichelle» e, infine, lampade, calamai, campanelli, ostiere, un «cane d’argento», etc.[↩]
- G.G. Borrelli, Lorenzo Vaccaro…, 2012, p. 147, nota 12.[↩]
- Verosimilmente fu un figlio di Baldassarre Pisani, autore de L’armonie feriali, poesie liriche, stampate da D.A. Parrino a Napoli nel 1695 (che contiene alcuni versi dedicati a «Francesco Antonio Pisani, mio figliuolo», pp. 197-200). Ciò esclude che sia lui il personaggio che pagò un Martirio di san Lorenzo ad Andrea Malinconino il 4 febbraio 1671, identificato come «Francesco Antonio Pisano di Fabio» (V. Rizzo, Documenti su Cavallino, Corenzio, de Matteis, Giordano, Lanfranco, Solimena, Stanzione, Zampieri ed altri, dal 1636 al 1715, in Seicento napoletano. Arte, costume e ambiente, a cura di R. Pane, Milano 1984, p. 316).[↩]
- R. Ruotolo, Documenti sulle arti applicate napoletane del seicento, in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi vari in memoria di Raffaello Causa, Milano 1984, p. 213. Peraltro, l’interesse per la musica di Pisano emerge pure nell’elenco dei beni lasciati ai padri di San Martino, dove compaiono diversi cembali, spinette e un organo (Appendice, n. 1).[↩]
- E. Catello-C. Catello, Argenti…, 1980, p. 217.[↩]
- F. Galiani, Della moneta, Napoli 1751, ed. cons. II, Napoli 1780, p. 56. Il passo è citato pure da E. Catello-C. Catello, Argenti…, 1980, p. 217 e da P. Giusti, Le arti decorative, in Storia e civiltà della Campania. Il Settecento, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli 1994, p. 278.[↩]
- A. González-Palacios, Le arti decorative e l’arredamento alla corte di Napoli: 1734-1805, in Civiltà del ’700…, 1980, pp. 81-84. Per alcuni esempi sopravvissuti si veda, oltre che il citato intervento di González-Palacios, complessivamente il catalogo della mostra Tre secoli di argenti…, 1988. Sulle specificità dell’argenteria profana napoletana cfr. anche E. Catello, Lorenzo Vaccaro scultore argentiere, in “Napoli nobilissima”, XXI, 1982, p. 13.[↩]
- Appendice, n. 1.[↩]
- Per un inquadramento generale della vicenda e per le stratificazioni del manufatto, che comportarono ad esempio la sostituzione degli angeli ‘capoaltare’ di Giacomo Colombo con quelli attuali in cartapesta, di Giuseppe Picano su modello di Giuseppe Sanmartino, cfr. S. Pisani, Un disegno di Francesco Solimena per l’altare maggiore del Tesoro a Napoli, in “Paragone”, XLVII, s. III, 5-7, 1996, pp. 179-192; V. Rizzo, Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro…, 2001, pp. 53-58; L. Di Mauro, Francesco Solimena e l’architettura a Napoli, in Francesco Solimena (1657-1747) e le Arti a Napoli, a cura di N. Spinosa, II, Roma 2018, pp. 273-275; G.G. Borrelli, Solimena con gli scultori e i decoratori, ivi, pp. 295-297 (da cui è presa la citazione).[↩]
- G.G. Borrelli, Solimena…, 2018, p. 296.[↩]
- N. Spinosa in Francesco Solimena…, 2018, p. 433. Allo studioso sfugge la bibliografia precedente inerente all’opera, da integrare almeno con le seguenti voci: R. Causa, L’arte…, 1973, pp. 74-75; V. Rizzo, Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro…, 2001, pp. 55-56.[↩]
- N. Spinosa in Francesco Solimena…, 2018, pp. 358-367.[↩]
- A conferma di una datazione più antica del rame, occorre rilevare che G.G. Borrelli, Solimena…, 2018, pp. 296-297, evidenzia alcune tangenze compositive tra il Cristo solimenesco e quello di Lorenzo Vaccaro che compare nella portella del ciborio del lato anteriore del medesimo altare certosino. In generale, per la comprensione della cultura di Solimena rimane imprescindibile F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958; si vedano, inoltre, N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento, dal Barocco al Rococò, Napoli 1993, in particolare pp. 9-27; S. Carotenuto, Francesco Solimena. Dall’attività giovanile agli anni della maturità (1674-1710), Roma 2015 e il lavoro in due volumi, a cura di N. Spinosa, Francesco Solimena…, 2018.[↩]
- Sul tema cfr. G.G. Borrelli, Solimena…, 2018, pp. 288-308, con bibliografia precedente. Un raro esempio di dipinto solimenesco di piccolo formato, con una cornice argentea è la Sant’Anna con la Vergine Bambina di Palazzo Pitti a Firenze (A. González-Palacios, Le arti decorative…, 1980, p. 82; E. Catello in La principessa saggia. L’eredità di Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina, catalogo della mostra (Firenze 2006-2007), a cura di S. Casciu, Livorno 2006, pp. 278-280, n. 145).[↩]
- La certosa venne soppressa una prima volta nel 1800 dai Borbone, poi nel 1807, in età napoleonica (R. Tufari, La certosa di S. Martino in Napoli, descrizione storica ed artistica, Napoli 1854, pp. 11-12). Il documento a cui si fa riferimento (Appendice, n. 2) purtroppo è senza data, ma è possibile che esso risalga ai tardi anni dieci, considerato che si fa riferimento a Francesco Antonio Crispo Doria, cappellano di Camera del re e decano della Real Cappella, incarico quest’ultimo da lui ottenuto nel 1817 (la questione però non è del tutto chiara: N. Capece Galeota, Cenni storici sul clero della Real Cappella Palatina di Napoli, Napoli 1854, pp. 242, 289, 292, 366).[↩]
- Appendice, n. 2.[↩]
- E. Catello-C. Catello, Argenti napoletani…, 1972, cit., p. 23.[↩]
- Appendice, n. 2.[↩]
- E. Catello-C. Catello, Argenti napoletani…, 1972, pp. 23-26.[↩]
- R. Tufari, La certosa…, 1854, pp. 12-13.[↩]
- R. Tufari, La certosa…, 1854, p. 92. Un accenno confuso al reliquiario è in P. Vitolo, La chiesa della Regina. L’Incoronata di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Roberto di Oderisio, Roma 2008, p. 30, che tuttavia, trascurando la bibliografia specifica su San Martino, riferisce di un trasferimento del reliquiario nella certosa dopo le «soppressioni del 1860 [sic!]».[↩]
- R. Tufari, La certosa…, 1854, p. 92.[↩]
- Appendice, n. 2. Su Vervloet cfr. almeno R. Causa, La Scuola di Posillipo, Milano 1967, pp. 17-18, 46-51, 97; B.M. Savy, B. Di Castro in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative, catalogo della mostra (Napoli-Caserta 1997-1998), Napoli 1997, pp. 492-495, nn. 17-86-17.89, 628.[↩]
- Si tratta di un registro di introito ed esito composto da 44 carte, molte delle quali bianche.[↩]
- Le ultime tre frasi risultano biffate.[↩]
- Le ultime cinque frasi risultano biffate.[↩]