Teresa Leonor M. Vale

L’attività dell’argentiere Giovanni Paolo Zappati (1691-1758) nella Roma del Settecento. Dalle «stanze delli argentieri» nel Palazzo dell’Accademia di Portogallo alle monumentali cancellate della Basilica Patriarcale di Lisbona

teresalmvale@outlook.com
DOI: 10.7431/RIV27052023

Quando, nel marzo del 1728, tutti i portoghesi che non avevano residenza stabile a Roma, per obbedire all’ordine del re Giovanni V (1689-1750) loro sovrano lasciarono la città pontificia seguendo le orme del loro ambasciatore, trasferitosi a causa dell’interruzione dei rapporti diplomatici tra i due Stati 1, chiuse i battenti anche Palazzo Magnani, sede dell’Accademia di Portogallo.

Un inventario, redatto nel maggio successivo di quello stesso anno 2, ci conduce attraverso le sale ormai vuote di Palazzo Magnani, in via di Campo Marzio, che fino a pochi mesi prima aveva ospitato l’Accademia della Sacra Corona di Portogallo, e ci svela (a f. 71) l’esistenza delle «stanze delli Argentieri». Dalla lettura del documento apprendiamo inoltre che quegli ambienti avrebbero davvero potuto funzionare come una bottega, dato che troviamo il riferimento a «Vna padella di Rame che seruiua nel focone di argento» (f. 65v.): indicazione che rimanda all’esistenza di una stufa o forno per servizio degli argentieri. La notizia trova conferma in un pagamento reperito fra i conti dell’Accademia, avvenuto nel settembre 1728 (ma relativo a spese effettuate in precedenza), riguardante il carbone necessario al lavoro degli argentieri: «un conto di carbone datto per seruitio dell’Argentieri è cucina doppo l’ultimo saldo.» 3.

Oltre a queste informazioni, una piccola nota posta sull’ultimo foglio dell’inventario sopra citato, scritta in una lingua fra il portoghese e l’italiano, recita quanto segue: «Libras 79:5 18 foram dadas a Giacomo Possi e Gio. Paolo Zapatti per scoagliare e mettere in opera nelli candelieri quali faceuano la muta per uno scontato nelli suoi conti.», consentendoci di comprendere come ai due argentieri Giacomo Pozzi (1682-1735) e Giovanni Paolo Zappati (1691-1758) fossero stati consegnati pezzi di argento da fondere per essere utilizzati in seguito nei candelieri che stavano realizzando, regolandosi più tardi i conti. Infatti, in quegli anni sia Pozzi che Zappati erano impegnati nella realizzazione di diversi oggetti destinati all’uso liturgico nella Reale Basilica di Mafra, la cui opera era in corso 4. Se Pozzi, scomparso nel 1735, non ebbe l’opportunità di continuare a lavorare a lungo per la committenza portoghese, tutt’altro occorse a Giovanni Paolo Zappati.

In effetti, una lunghissima collaborazione, durata sin dall’inizio della sua attività come argentiere patentato (1726) fino a pochi anni dalla sua scomparsa, vide Giovanni Paolo Zappati lavorare per la committenza portoghese. Il rapporto non si esaurì con le commissioni della Corona ma riguardò anche la chiesa nazionale in Roma, il cui governatore riferisce di Zappati come «nostro Argentiere della Regia chiesa de Portoghesi»; l’argentiere operò inoltre per committenti privati quali il Terzo Ordine di S. Francesco, come avremo occasione di vedere più avanti. Questa collaborazione ebbe ulteriori sviluppi con altri membri della stessa famiglia. Sia il fratello di Giovanni Paolo, Giuseppe, indoratore e ottonaro, che i tre figli, Pietro (1720-1781), Antonio (n. 1726) e Giovanni Domenico (1729-1802), continueranno a lavorare tutti quanti per i portoghesi.

Col presente contributo ci proponiamo ripercorrere le vicende del sodalizio tra gli Zappati e la committenza portoghese, puntando l’attenzione in particolare su Giovanni Paolo e sugli aspetti finora meno studiati che lo riguardano 5, per avviare una riflessione finalizzata a una conoscenza più approfondita del tema.

Argenti per Lisbona: la committenza reale

A partire della prima metà del Settecento e almeno fino ai primi decenni del secolo successivo, la famiglia Zappati ha avuto un ruolo importante nella scena della fiorente attività orafa romana, in particolare nella persona di Giovanni Paolo, figlio del capostipite Pietro, la cui attività si svolse tra il 1726, quando ottenne la patente di maestro argentiere, e il 1758, anno della scomparsa. Le notizie sul suo conto ce lo presentano come apprendista nella bottega di Francesco Morelli dal 1706 al 1708 e come lavorante già nel maggio del 1717; nel 1724 risulta esserne il deputato. A trent’anni si trasferì con la moglie, Margherita Ojetti, in via del Pellegrino, in una casa all’altezza del vicolo Savelli. Qui Giovanni Paolo stabilì la sua bottega, dove lavorò anche il fratello Giuseppe, la cui attività vi è attestata dal 1728. Il 30 maggio 1726 fu ammesso all’esame per la patente di maestro argentiere, che conseguì il 21 giugno dello stesso anno: come punzone scelse le due lettere A e M sovrapposte (con probabile allusione all’Ave Maria). Il periodo di massima fioritura professionale per l’argentiere romano va dal 1726 al 1747, a cui risale la maggior parte delle opere di carattere sia sacro che civile, e un forte incremento della clientela; egli abita e lavora sempre in via del Pellegrino, esattamente nella terza casa a sinistra che si incontra arrivando da via Sora. Nel 1748, tuttavia, lo si ritrova nuovamente in prossimità del vicolo Savelli. Giovanni Paolo Zappati si spense il 9 dicembre del 1758, dopo aver ricoperto le cariche di Quarto Console (1741-1743), Secondo Console (1743-1748) e Camerlengo (1748) all’interno della corporazione degli argentieri di Roma, e fu sepolto nella chiesa della Sacre Stimmate 6.

Per quanto riguarda la collaborazione con la Corona portoghese, Zappati legò il nome a due delle più importanti opere che il re Giovanni V commissionò a maestri argentieri italiani: gli arredi sacri per la Reale Basilica di Mafra e quelli per la Basilica Patriarcale di Lisbona. Su questi lavori, il cui studio ho avuto modo di approfondire in altra sede, mi limiterò a fare alcuni brevi cenni focalizzati sulla figura dell’argentiere capitolino.

Il documento più antico finora conosciuto che testimonia l’investimento da parte della Corona lusitana in arredi di manifattura italiana per la basilica di Mafra, risale al 17 dicembre del 1728: si tratta di una lettera 7 scritta da José Correia de Abreu, alto funzionario della Segreteria di Stato portoghese (che fino al 1728, anno dell’interruzione dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, fu uno dei responsabili dell’Accademia di Portogallo in Roma), indirizzata a Fra José Maria da Fonseca Évora (1690-1752), religioso francescano, allora agente diplomatico della Corona portoghese in territorio pontificio 8. In questa missiva si gettano le basi per una commissione di argenti sacri successivamente definita e dettagliata in una fitta corrispondenza nella quale, insieme a minuziose indicazioni per gli artisti romani, furono inviati i disegni degli oggetti richiesti (non sempre di carattere artistico ma sempre con scopo informativo) (Figg. 1234): soprattutto quest’ultimo aspetto pone in evidenza il rigido controllo esercitato da Lisbona sui lavori commissionati in Roma.

Il primo documento relativo alla ricezione degli argenti romani data invece al mese di luglio del 1729 9: curiosamente, essa non rivela grande entusiasmo da parte dei committenti, che vi lamentano la scarsa qualità dei pezzi e le modalità d’imballaggio, considerate la causa di alcuni danni subiti dagli oggetti preziosi. Nella lettera del luglio 1729 sono nominati per la prima volta alcuni degli argentieri coinvolti nei lavori: si parla in concreto di Giacomo Pozzi e di Giovanni Paolo Zappati. Ecco cosa scriveva a tale proposito José Correia de Abreu: «[…] ho ricevuto gli argenti per Mafra, che si trovarono molto ordinari in generale, il che supongo risulte del fatto che Pozzi e Zappati fossero molto presi dalle altre opere in corso, il calice maggiore, e più ricco, è arrivato rotto nel piede dovuto alla sua eccessiva sottilezza […].» 10.

D’altra parte, le fatture dei pagamenti effettuati dall’ambasciata portoghese, conservati presso la Biblioteca da Ajuda di Lisbona, attestano che Giuseppe Zappati, probabilmente il fratello più giovane di Giovanni Paolo, nel 1728 aveva ricevuto da Miguel Lopes Rosa, membro della Confraternita della chiesa nazionale, la somma di 208 scudi e 97 baiocchi per alcuni oggetti in metallo realizzati nella bottega di famiglia, e destinati al «palazzo di José Correia de Abreu» 11. Se ne può desumere quindi che già in quell’anno la famiglia Zappati fosse al servizio di committenti portoghesi, servizio che si protrasse per lungo tempo, e che vide la realizzazione di innumerevoli opere in argento, rame dorato e altri materiali, per non parlare della doratura di diversi pezzi 12. Alcuni destinati all’arredo dell’ambasciata, altri da inviarsi in Portogallo: tra questi ultimi rientrano con ogni probabilità quelli elencati nella ricevuta datata 16 agosto 1728: 12 basi quadrangolari per cartegloria, 8 capitelli, 4 busti di apostoli e 2 balaustre, tutto in rame dorato 13.

Della numerosa e variegata collezione di oreficeria barocca che José Maria da Fonseca Évora, in veste di agente diplomatico della Corona portoghese, acquistò e/o commissionò nella città pontificia per la Basilica di Mafra, non ci è pervenuta che una minima parte, attualmente conservata nel Palácio Nacional di Mafra. Fra i tredici pezzi tuttora appartenenti alla collezione si individuano quattro calici (Figg. 5678) e una pisside di Giovanni Paolo Zappati 14.

Sebbene stilisticamente ascrivibili al barocco, i calici e la pisside se ne distinguono tuttavia per una certa sobrietà negli ornati, in cui è ravvisabile l’intervento di Lisbona, e, in particolare, di José Correia de Abreu 15: come si accennava sopra, infatti, il lavoro degli argentieri capitolini era tenuto sotto la costante supervisione della committenza portoghese (lettere e disegni circolavano in entrambe le direzioni tra Lisbona e Roma), che tendeva a sacrificare il fastoso stile romano a favore di un gusto nazionale, nonché di una maggiore funzionalità dei pezzi, secondo i dettami forniti da Carlo Borromeo 16, le cui disposizioni erano osservate dai committenti con particolare attenzione. Così, ad esempio, non si doveva ridurre eccessivamente il diametro della base, poiché «giustamente si può temere che facilmente cada un calice sull’altare, cosa assolutamente da evitare» 17. Allo stesso modo, nei calici non dovevano esserci ornati in alto rilievo, per non rendere difficile al celebrante tenerli in sicurezza durante la messa 18.

La decorazione è infatti molto semplice, limitandosi a ricoprire la superficie con elementi prevalentemente geometrizzanti e vegetali, organizzati intorno a cartigli e incorniciati da cornici ritagliate, a bassissimo rilievo. Tale tipologia ornamentale è talvolta citata nella documentazione come «alla cinese», riferendosi ad una motivazione orientale, che va naturalmente ridimensionata nella sua accezione letterale. La verità è che tutti i pezzi di Mafra giunti fino a noi vantano una scelta decorativa eccezionale nel contesto della produzione romana. È interessante notare come sia stato possibile individuare, in quell’ambito, un calice di Giovanni Paolo Zappati (appartenente alla chiesa romana di Santa Caterina da Siena, in via Giulia) con le medesime caratteristiche descritte da Anna Maria Pedrocchi in questi termini: «Il calice presenta un modello dalle linee arrotondate ed una decorazione piuttosto inconsueta nell’argenteria romana dell’epoca, con ornati ‘profani’ stilizzati, in leggero aggetto.» 19. Appare di conseguenza ancor più interessante il fatto che Giovanni Paolo Zappati sia l’autore di questo calice e che la data dell’oggetto, 1737-1739, corrisponda al periodo di pochi anni successivo alla realizzazione di quelli destinati alla Basilica di Mafra, quando l’argentiere romano continuava a lavorare per il Portogallo e per i portoghesi. Quindi, dal nostro punto di vista, questo calice può essere considerato come una solida testimonianza della diffusione del gusto veicolato dai pezzi di Mafra tramite il suo autore, al quale non è estraneo l’intervento del committente e dei suoi agenti, nel contesto romano 20.

Lo stesso principio è all’origine del programma decorativo dei calici: mentre la tendenza stilistica romana coeva prevedeva soluzioni ornamentali dal carattere accentuatamente scultoreo, in forte rilievo, negli analoghi oggetti destinati a Mafra i decori sono essenzialmente piani e consistono in motivi fitomorfi che racchiudono cartigli profilati da cornici a margine libero leggermente sbalzate. Sarà interessante notare che i due calici eseguiti dalla bottega familiare degli Arrighi (in cui lavoravano in quegli anni sia Giovanni Francesco, che Antonio e Agostino) 21 e da Giacomo Pozzi, si rifanno chiaramente allo stesso modello e obbediscono agli stessi programmi morfologici e decorativi di quelli di Giovanni Paolo Zappati: ciò dimostra che furono forgiati sotto le rigorose direttive provenienti dal Portogallo (Figg. 910).

Quanto alla pisside dello Zappati, essa manifesta la stessa volontà di moderare gli ornati che abbiamo osservato nei calici, senza per questo allontanarsi eccessivamente, dal punto di vista formale, dal resto della produzione contemporanea 22 (Fig. 11).

Un altro importante lavoro che vide impegnati gli argentieri romani per il Portogallo fu la realizzazione di arredi sacri destinati alla cappella reale di Giovanni V: questa fu elevata alla dignità di Basilica Patriarcale dal papa Clemente XI con la bolla In supremo apostolatus solio del 7 novembre 1716 e finalmente consacrata il 13 novembre 1746. Il nuovo statuto del tempio comportò la necessità di rinnovarne gli arredi, cui corrispose la decisione del sovrano di commissionare agli artisti della città pontificia – i quali, nello stesso periodo, erano impegnati nell’elaborazione dei pezzi destinati alla basilica di Mafra (fine anni ’20-inizio anni ’30) e alla cappella di San Giovanni Battista della chiesa di São Roque (anni ’40) – oggetti liturgici che iniziarono ad arrivare a Lisbona nel febbraio del 1742: oltre a varie suppellettili e a numerosissimi reliquiari, ricordiamo qui un intero gruppo in argento dei Dodici Apostoli, una cancellata di modello romano destinata alla cappella maggiore, alle cappelle laterali e al battistero, e tre croci d’altare con rispettivo corredo di candelieri: di queste tre mute, due furono eseguite negli anni 30 da Antonio Arrighi, mentre la terza da Filippo Tofani (1694-1767) nel decennio successivo. Tali opere andarono distrutte in seguito al terremoto che rase al suolo Lisbona il 1° novembre 1755. Ma attraverso i documenti sappiamo come fossero riconducibili a un preciso programma compositivo dettato da Giovanni V, che mirava a sposare il proprio gusto per la sontuosità e la ricchezza figurativa con la volontà di emulare l’allestimento dell’ambiente liturgico osservato nelle più importanti chiese capitoline, le caratteristiche decorative degli arredi sacri e l’uso che di essi veniva fatto durante la celebrazione. Questa parziale ricostruzione dei manufatti è resa possibile attraverso fonti scritte e illustrate: tra quelle scritte si annoverano la corrispondenza di cui si è precedentemente parlato, vari volumi manoscritti conservati nella Biblioteca da Ajuda di Lisbona, contenente i registri della contabilità dell’ambasciata portoghese a Roma. Grazie alla scrupolosa solerzia con cui l’ambasciatore Manuel Pereira Sampaio (1691-1750) annotava ogni spesa effettuata, la documentazione di cui disponiamo relativamente a questo periodo (anni ’40 del Settecento) è ampia. La corrispondenza scambiata con il gesuita napoletano Giovanni Battista Carbone (1694-1750), segretario del re (in Lisbona dal 1722) ci consente inoltre di conoscere meglio il procedere degli atti. Infatti, Pereira Sampaio, in una lettera del 1° agosto 1743, riferisce che in quei giorni quattro artefici stanno facendo le cancellate che si spera possano concludersi nella «più grande perfezione», «rispettando in tutto e per tutto gli avisi, pianta e instruzioni inviate da V. Rma.» 23.

Tra le fonti illustrate, più o meno dirette, si segnalano invece i disegni presenti nel Museu Nacional de Arte Antiga e nella Biblioteca Nazionale di Lisbona, ma il documento più prezioso per la conoscenza delle opere perdute è senza dubbio il cosiddetto Album Weale, dal nome dell’editore inglese John Weale che ne venne in possesso nell’Ottocento. Dopo varie vicissitudini che ne fecero addirittura ipotizzare la distruzione 24, esso fa attualmente parte dei fondi della Biblioteca della École Nationale Supérieure de Beaux-Arts di Parigi e fu da noi pubblicato nel 2017 25. Il codice riporta, sotto il titolo Libro degli Abbozzi de Disegni delle Commissioni che si fanno in Roma per Ordine della Corte, testimonianze scritte e disegni delle opere commissionate dalla corona portoghese agli argentieri romani per la Basilica Patriarcale e per la cappella di San Giovanni Battista 26, riunite anch’esse sulla base dei registri compilati da Manuel Pereira Sampaio.

Il Libro degli Abbozzi… costituisce dunque la pressoché unica fonte visiva per conoscere le caratteristiche degli oggetti andati distrutti in seguito al terremoto del 1755, che travolse la capitale portoghese. Tra questi se ne annovera uno proveniente della bottega Zappati: la cancellata destinata alla Cappella della Sacra Famiglia della Basilica Patriarcale, opera assai costosa commissionata tra il 1743 e il 1744.

Il 28 ottobre del 1747, il giornale Mercúrio Histórico de Lisboa, anunciava la collocazione delle quattro cancellate, menzionando la loro provenienza romana 27. I dettagli riguardanti la commissione e la realizzazione di questi lavori si trovano in un apposito volume, il Libro delle Canscelate, Battistero et Altro 28. Ciò che interessa qui sottolineare è che quella destinata alla cappella della Sacra Famiglia fu certamente forgiata dalla bottega degli Zappati, tra il 1744 e il 1747. E che per il suo compimento furono sicuramente interessati vari membri della famiglia, tra cui certamente Giuseppe, sia per la fusione che per l’indoratura.

Per questo lavoro l’argentiere romano ricevette a un ritmo regolare somme tra 200 i 3000 scudi romani per un periodo compreso tra il mese di agosto del 1744 e giugno del 1750 29, riguardanti alla «Cancellata di rame dorato, che si sta lauorando per ordine della Maestà di Portogallo», come si legge nel registro di uno di questi pagamenti, con data dell’11 novembre 1744 30. Ormai scomparsa, la cancellata dagli Zappati è però rappresentata nel Libro degli Abbozzi… dal quale possiamo dedurre come avrebbe potuto essere (Fig. 12).

Il budget, che ammontava complessivamente a 23000 scudi, comprendeva i costi del rame (1600 scudo), dell’oro, destinato alla doratura (6000 scudi), del modello (900 scudi) e, naturalmente, dell’esecuzione (14.500 scudi) 31.

Nel 1749 la cancellata realizzata dai Zappati era pronta, visto che nel registro del pagamento di 500 scudi, avvenuto l’8 dicembre di quell’anno, si può leggere «già terminate» 32.

Stranamente, nell’ambito della complessa commissione di opere che oggi testimoniano con particolare eloquenza il desiderio di Giovanni V nel portare Roma a Lisbona, Giovanni Paolo Zappati sembra essere assente: considerando i lavori per la cappella regia fatta costruire nella città pontificia e poi installata all’interno della chiesa gesuitica di São Roque. Infatti, sembrerebbe che gli Zappati non fossero stati chiamati a collaborare nella magnifica e sontuosa collezione di argenti sacri destinati al servizio nella cappella di San Giovanni Battista. Tra i cospicui fondi della Biblioteca di Ajuda siamo riusciti a trovare un solo riferimento: un pagamento di 600 scudi fatto il 21 marzo del 1747 a Pietro 33 Zappati, «à Conto delli dorati per seruizio della Cappella di S. M. di Portogallo» 34. 

Gli Zappati e la chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi di Roma

Se i manufatti di Giovanni Paolo Zappati realizzati per il Portogallo non sono stati oggetto di grande attenzione da parte della critica, quelli per la chiesa nazionale portoghese sono, fino a qualche anno fa, passati praticamente del tutto inosservati, se si eccettuano menzioni sporadiche 35. Eppure, i documenti conservati nell’archivio dell’Istituto Portoghese di Sant’Antonio parlano di una collaborazione lunga e continuativa: tra le Filze delle giustificazioni della Venerabile Chiesa di S. Antonio dei Portoghesi appaiono ricevute di pagamento risalenti agli anni ’30, ’40 e ’50 del Settecento. Lo studio intrapreso a suo tempo da chi scrive sulle collezioni di argenti sacri della chiesa nazionale portoghese ha consentito di avere un più ampio panorama di questa collaborazione lunga più di trent’anni, attestata da numerosi documenti tuttora conservati nell’Archivio dell’Istituto Portoghese di S. Antonio di Roma, di cui, avendo avuto occasione di riferire e pubblicare, non si ritiene opportuno ripercorrere informazioni ormai note 36. Basta sottolineare che l’attività di Giovanni Paolo Zappati si svolgeva sia nell’ambito del restauro e della valorizzazione degli oggetti sacri che nella realizzazione di nuove opere, di cui ci danno notizia i registri dei pagamenti. Infatti, da una fattura del 4 luglio 1741, veniamo a sapere che l’argentiere romano realizzò una muta di cartegloria: «La carta di Gloria, com l’In principio et Lauabo, com due Euangelista [sic] nella Cornice per ciascheduna di basso rilieuo, quattro puttini, é otto teste di Cherubino com nuuole é piastre per l’inscrizione […]» 37. La descrizione, soprattutto nel particolare degli Evangelisti sbalzati, fa pensare alle cartegloria che Zappati aveva eseguito, qualche anno prima, per la chiesa del Terzo Ordine Francescano di Elvas, di cui ci occuperemo più avanti.

In un’altra ricevuta, del 17 maggio 1746, si fa riferimento a sei calici in argento dorato, «con piastra centinata è testine di Cherubino alla pianta balaustro, è sottocoppa è numero quattro patene» 38, la cui produzione valse a Zappati 294 scudi e 92 baiocchi, pagatigli il successivo 3 giugno 39, e a una coppia di torcieri per cero «Tutti Triangoli con ripporti di cartelle nelle cantonate, festoni, e teste di cherubino», per i quali ricevette 6.198 scudi e 82 baiocchi e mezzo il 6 ottobre del 1750 40.

Ma l’autore di questi pezzi non fu l’unico membro della famiglia Zappati a collaborare con la chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi: l’Archivio dell’IPSAR contiene documenti relativi ad almeno un pagamento effettuato a suo fratello Giuseppe, maestro fonditore, che, il 26 dicembre del 1748, emise una fattura in cui riferisce di «nº. 6 para di cartegloria cioè Nº. 12 piccole, e sei grande di ottone di verga di peso libre quattordici e mezzo in circa per muta, com sue tauole, e cartegloria stampate […]» 41. I 36 scudi richiesti per questi lavori in ottone gli furono pagati l’8 febbraio dell’anno seguente. Si deve notare che anche una parte dei pagamenti della committenza reale riguarda entrambi i fratelli e da quanto riferito si evince che comportava ogni genere di lavorazione concernente i metalli, preziosi e non 42.

D’altra parte, in botteghe di famiglia come quella degli Zappati (o degli Arrighi, o ancora dei Gagliardi, anch’essi fonditori e argentieri romani impegnati in lavori commissionati dal Portogallo) accadeva assai di frequente che vari membri della stessa famiglia prendessero parte alla lavorazione di un oggetto ordinato da un cliente fisso. Una tale bottega poteva così ricoprire tutte le varie fasi della lavorazione dei metalli e, in alcuni casi, prestare il proprio servizio anche ad altre botteghe: è quanto accadde, ad esempio, nel caso di dodici calici commissionati dall’ambasciatore José Maria da Fonseca Évora alla bottega degli Arrighi, che furono però dorati in quella degli Zappati 43.

Dopo la morte di Giuseppe e di Giovanni Paolo Zappati, la gestione della bottega passò ai figli di quest’ultimo, i quali continuarono a collaborare con la chiesa portoghese. Infatti, Pietro, Antonio, Giovanni e Domenico eseguirono un tabernacolo a baldacchino oggi perduto di cui si è già occupata Jennifer Montagu 44, e quattro mute di cartegloria. Una di queste, si noti, ai punzoni originali aggiunge quello di Tommaso Zappati (1748-1817) e il bollo camerale del 1795, dovuti probabilmente a un restauro successivo 45, che attesta ancora una volta tale continuità.

L’opera più importante nell’ambito della collezione di argenti sacri della chiesa nazionale portoghese di Roma è senza dubbio l’Urna della Reposizione, o del Santissimo Sacramento (Figg. 1314). Destinata ad essere usata durante le celebrazioni del Giovedì Santo e del Venerdì Santo, essa presenta soluzioni decorative caratteristiche dell’epoca e un programma iconografico affidato ad attributi della Passione di Cristo: putti piangenti, la colonna della flagellazione, i flagelli, i chiodi della croce e la corona di spine, tutto dotato di una straordinaria carica espressiva. La suppellettile, dalle pareti trapezoidali, poggia su quattro piedi a voluta il cui disegno ritorna nei vertici superiori del trapezio, sui quali campeggiano cherubini. Sulla superficie principale, in rilievo, alcuni angeli piangono sul cadavere del Cristo (Fig. 15), mentre le due minori sono occupate, rispettivamente, l’una da foglie di palme e gigli, simboli del martirio e della purezza, l’altra dallo stemma della casa reale portoghese (Fig. 16). Sulla parte superiore del coperchio, di foggia puramente architettonica, si indovina la presenza della colonna della flagellazione, e, sui lati, altri due cherubini in forte rilievo espongono alla vista dell’osservatore i chiodi e la corona di spine. A sormontare la struttura è una croce con l’inscrizione INRI; davanti ad essa, si incrociano la lancia e la canna con la spugna imbevuta d’aceto, dalle quali pendono i flagelli.

Dal punto di vista morfologico, l’opera risponde complessivamente ai canoni che emergono dalle incisioni raccolte e pubblicate da Filippo Passarini nelle Nuove Inventioni d’Ornamenti del 1698 e da Giovanni Giardini nel Promptuarium Artis Argentariae del 1714 (la cui prima edizione recava il titolo ben più modesto di Disegni Diversi) 46; queste, difatti, avevano riscosso molto successo presso gli argentieri, la stragrande maggioranza dei quali ben presto iniziò a trarne i modelli per le proprie creazioni. Ciononostante, è assai arduo trovare termini di paragone per l’Urna della Reposizione della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi. Forse un raffronto può essere proposto con quella conservata nel Museo degli Argenti di Firenze 47, attribuita a Massimiliano Soldani Benzi (1656-1740) e realizzata agli inizi del Settecento in bronzo e argento dorato con lapislazzuli, perle, rubini, smeraldi e granati incastonati. Di dimensioni minori ma dalla struttura morfologica molto simile a quella della chiesa portoghese 48 (superfici trapezoidali su piedi a voluta), l’Urna fiorentina si fa notare per l’armonia dell’elemento plastico e del ritmo scultoreo, unita a un perfetto equilibrio policromatico conferito dalle pietre preziose. Le scene della Passione di Cristo sono state attribuite all’orafo e argentiere di Augsburg, Adolf von Gaap (1600-1690) o, più verosimilmente per motivi cronologici, al figlio di questo, Johann Adolf (1667-1724).

La fama degli artisti coinvolti nella realizzazione di quest’opera aveva già raggiunto il Portogallo al tempo in cui fu commissionata l’Urna della chiesa lusitana: in una lettera inviata il 10 maggio 1730 da José Correia de Abreu – che in quella data aveva già lasciato la città capitolina ma ne conosceva profondamente l’ambiente artistico – all’allora ambasciatore portoghese José Maria da Fonseca Évora, è citato il nome di Soldani Benzi: “Padre Tambini introdusse qui il nome di un scultore chiamato Massimiliano Soldani Benzi; Vostra Reverendissima vi informerà sulle sue capacità, e considerandolo Professore in grado di sodisfare in modo capace, si servira di lui.” 49. La lettera, che aveva come oggetto la commissione di lavori destinati alla Reale Basilica di Mafra, rivela dunque che il nome dello scultore e bronzista italiano era conosciuto in Portogallo almeno dal 1730, quando si cercò di accertarne le competenze in vista di un suo coinvolgimento in un’opera così imponente. Dunque, non è da escludersi anche una conoscenza della sua poliedrica produzione artistica. Quanto a Johann Adolf von Gaap, i suoi contatti con l’ambiente lusitano sono addirittura precedenti e si ricollegano alla figura di Johann Friedrich Ludwig (1673-1752, in Portogallo conosciuto come João Frederico Ludovice). Anch’egli orafo, Ludwig esercitò una notevole influenza in campo artistico all’interno della corte di Giovanni V. Giunto a Lisbona da Roma nel 1700 per eseguire un tabernacolo destinato alla chiesa del collegio di Santo Antão-o-Novo, nella città pontificia era stato al servizio dei Padri Gesuiti almeno dal 1698, quando aveva preso parte alla decorazione dell’altare di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù 50. Proprio nell’ambito di quest’opera, Ludwig e Gaap ebbero occasione di lavorare insieme; in seguito, collaborarono nella stessa città (tra il 1699 e il 1700) anche all’urna sepolcrale di S. Luigi Gonzaga nella chiesa di S. Ignazio, eseguita con disegno dello scultore genovese Angelo de Rossi (1671-1715). Da questi dati emerge chiaramente come, agli inizi del XVIII secolo, esistesse un vivacissimo scambio culturale e artistico tra Roma e Lisbona favorito dall’azione di un personaggio carismatico quale l’ambasciatore e governatore della chiesa nazionale portoghese Manuel Pereira Sampaio. Alla luce di ciò, è lecito ipotizzare che l’Urna di Firenze fosse conosciuta, anche se solo attraverso dei disegni, dai committenti di quella destinata alla chiesa della nazione lusitana.

Lo stemma reale su uno dei lati minori ha fatto pensare che questo arredo fosse stato un dono dall’ambasciatore José Maria da Fonseca Évora, in nome del sovrano portoghese, alla chiesa nazionale. A confutare ciò è tuttavia l’esistenza di una ricevuta rilasciata il 7 novembre 1740 da Giovanni Paolo Zappati per il pagamento dell’Urna della Reposizione, che rivela chiaramente che essa fu commissionata dai responsabili della chiesa portoghese: «[…] in conto dell’Vrna, è Carta di Gloria com l’In principio et Lauabo, che da me sottoscritto si fanno per seruizio della detta Regia Chiesa […]» 51.

Inoltre, l’equilibrio fortemente prospettico degli elementi in rilievo che compongono l’effigie del Cristo Morto denuncerebbe l’utilizzo di un modello, o quanto meno di uno studio preliminare elaborato dall’argentiere stesso o da uno scultore. Anche in questo caso, la risposta ci viene dall’archivio. In un’altra ricevuta emessa dallo Zappati il 4 luglio del 1741 si può infatti leggere: «La guarnizione del’Vrna de cartellami, putti, è basso rilieuo d’un Crocefisso morto nella parte d’auanti pesa libre quarantuno oncie dieci denari sedici ll° (?) 41 d 10 i b che importa l’argento à l’oncia – scudi 502:70. Doratura di tutta l’ossatura della medesima Vrna, è doratura di mlti riporti – scudi 100:=. Fattura di tutta sopradetta guarnizione della medesima Vrna – scudi 350:= […] Per le due Vrne di legno, cioè la prima seruita di Modello è farci tutti li Modelli di cera, è l’altra seruita d’ossatura per fermare l’argento accordato con l’intagliatore hauendola fatte considerare d’altri Professori intagliatori di Legno […]» 52. Particolarmente interessante è il riferimento ai «Professori intagliatori di legno», che confermerebbe l’ipotesi circa l’eventuale partecipazione di uno scultore all’elaborazione dell’Urna.

La committenza del Terzo Ordine Francescano di Elvas

Sempre per la committenza portoghese, non dovuta però alla casa reale, Giovanni Paolo Zappati ha eseguito una muta di cartegloria in argento, destinata alla chiesa dello Terzo Ordine di S. Francesco di Elvas, città del sud del Portogallo, oggi custodita nel Museu de Arte Sacra-Casa do Cabido della stessa città (Figg. 10 e 11). Un’ulteriore osservazione dei bolli ci consente di fare risalire la sua esecuzione al biennio 1734-1736 e correggere la datazione precedentemente proposta 53. Infatti, i marchi della Reverenda Camera Apostolica sarebbero il 99 e il 100 54 (Figg. 171819202122). In alcuni documenti pervenuti nel frattempo si possono trovare dei riferimenti a queste cartegloria sin dal 1738, anno in cui proseguivano ancora i pagamenti, tuttavia senza nominare l’argentiere 55. Nel 1740 le cartegloria erano già a Elvas e si mandava pagare all’ «agente della Compagnia di Gesù, il Reverendo Padre Francisco Gomes, in Roma per il lavoro che ebbe con la commissione delle cartegloria di argento che ora si trovano in casa nostra» 56.

Un altro documento 57 fornisce un ulteriore contributo per la più ampia conoscenza delle vicende della commissione della muta di cartegloria destinata alla chiesa del Terzo Ordine Francescano di Elvas, rivelandoci come per il buon successo dell’operazione ebbe un ruolo essenziale il maggiordomo (dal 1732) D. Bernardino Mançano e Aguilar, un militare («Sargento-Mór da Cavallaria») 58 che infatti prestò la somma necessaria alla realizzazione dei pezzi. Un’altra informazione altrettanto importante per la comprensione dell’accaduto è senza dubbio la menzione esplicita al ruolo svolto da due sacerdoti della Compagnia di Gesù, uno di Elvas, il reverendo padre Henrique da Silva (nato a Lisbona nel 1680 e che tra il 1734 e 1749 era al Collegio del Salvador di Elvas 59), e un altro, il reverendo padre Francisco Gomes, chiaramente nominato come «agente» in Roma, ossia un rappresentante della Compagnia nella città pontificia, forse impegnato nella risoluzione di questioni direttamente riguardanti il collegio di Elvas.

Questo fatto pone in evidenza quanto abbiamo sempre affermato: quando la committenza riguarda individui o congregazioni in ambito religioso il ruolo svolto nello stesso terreno dagli agenti intermediari è fondamentale. In questo caso, l’unica domanda pertinente sarebbe quella di chiarire per quale motivo i membri del Terzo Ordine Francescano si siano rivolti a un prete gesuita e non a un esponente dei francescani in Roma. Forse l’intervento del prete gesuita di Elvas (Padre Henrique da Silva) risultò più efficace e immediato, essendo probabilmente padre Francisco Gomes una persona con cui aveva un rapporto di prossimità o amicizia.

Il percorso intrapreso e sviluppato nel presente contributo pone in evidenza le occasioni e le molteplici modalità con cui Giovanni Paolo Zappati e la sua bottega cercarono di soddisfare la committenza portoghese: quando questa partiva dalla città lusitana, nel momento in cui riguardava il sovrano; oppure quando giungeva da Roma per la Chiesa di Sant’Antonio; o ancora quando proveniva dalla piccola città di Elvas ai confini con la Spagna, dove i membri del Terzo Ordine Francescano ricorsero a un sacerdote gesuita allora residente nella città pontificia, cui fu affidato in modo informale il ruolo di agente intermediario, pur di ottenere per la loro chiesa una muta di cartegloria realizzata nella prestigiosa Roma.

  1. Si veda T. L. M. Vale, “L’interruzione dei rapporti diplomatici tra il Portogallo e la Santa Sede nel 1728: l’impatto sugli artisti e sulle commissioni in corso”, in Le arti e gli artisti nella rete della diplomazia pontificia, (a cura di M. Coppolaro, G. Murace, G. Patrone), Roma 2022, pp. 43-49, 73-75 e la bibliografia precendente lì indicata.[]
  2. Biblioteca da Ajuda (d’ora in poi BA), Ms. 49-IX-25, fls. 63-73: Inuentario di tutta la robba di Caza e Palazzo della Academia delli Signori Caualieri Giuzeppe Giorgeo de Siqueira, e Giuseppe Correa de Abreu a di 23 Maggio 1728– l’inventario fu da noi pubblicato nel libro A Academia de Portugal em Roma ao tempo de D. João V, Lisbona 2021, pp. 86-101.[]
  3. BA, Ms. 49-VII-13, Nº 220c, f. 265v.[]
  4. Si vedano gli innumerevoli pagamenti fatti tra 1728-1734 in BA. Ms. 49-VII-13.[]
  5. Dai Zappati ci siamo già occupati in T. L. M. Vale, ‘só para ostentação da magestade, e grandeza’. Aproximação à encomenda de ourivesaria barroca italiana para a basílica de Nossa Senhora e Santo António de Mafra, “Revista de Artes Decorativas”, Nº 2, 2008, pp. 19-44, T. L. M. Vale, L’atelier degli Zappati: opere per il Portogallo di una famiglia di argentieri romani del Settecento, Studi sul Settecento Romano. Palazzi, chiese, arredi e scultura, Vol. I, (a cura di E. Debenedetti) Roma 2011, pp. 197-215, T. L. M. Vale, A Colecção de Prataria Sacra da Igreja de Santo António dos Portugueses em Roma / La Collezione di Argenti Sacri della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi in Roma, Roma 2014, pp. 49-58, T. L. M. Vale, Para o Rei e não só. Obras dos Zappati, ourives do Settecento romano, em Portugal, in Portugal, A Europa e o Oriente. Circulação de Artistas, Modelos e Obras, (a cura di M. J. Ferreira, P. Flor, T. L. M. Vale), Lisbona 2015, pp. 87-103.[]
  6. Questa sintesi biografica di Giovanni Paolo Zappati risulta di contributi colti da C. Bulgari, Argentieri, Gemmari e Orafi d’Italia, Roma 1958-1959, A. Bulgari Calissoni, Maestri Argentieri, Gemmari e Orafi d’Italia, Roma 1987, Studi sul Settecento Romano. Artisti e Artigiani a Roma I e II, Degli Stati delle Anime nel 1700, 1725, 1750, 1775, (a cura di E. Debenedetti), Roma 2004-2005.[]
  7. Biblioteca Nacional de Portugal (d’ora in poi BNP), Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7 Doc. 1, in parte pubblicato da A. A. de Carvalho, D. João V e a Arte do Seu Tempo, II, Lisbona 1962, p. 399.[]
  8. Su Fonseca Évora si veda T. L. M. Vale, Arte e Diplomacia. A vivência romana dos embaixadores joaninos, Lisbona 2015.[]
  9. BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7 Doc. 5. Un brano di questa lettera fu pubblicato da A. A. Carvalho, D. João V e a Arte do Seu Tempo, cit., vol. II, p. 400. Il rinvenimento di questa lettera consente di anticipare la collaborazione di Zappati con la Corona portoghese di due anni rispetto a quanto riportato da Alvar González-Palacios sulla base di fonti precedenti – cfr. A. González-Palacios, Appunti per un lessico Romano-Lusitano, in Giovanni V di Portogallo e la Cultura Romana del Suo Tempo, (a cura di S. Vasco Rocca, G. Borghini), Roma 1995, p.444.[]
  10. “[…] recebi a encomenda de prata pera Mafra, a qual se achou muito ordinaria no seo tanto, o que suponho naceria de Pozzi e Zappati terem muito que fazer nas outras obras, que tem entre mãos pera câ, o cálix major, e mais rico já vinha quebrado no pê pella sua muita sotilleza […]”, BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7 Doc. 5, f. 1v.[]
  11. BA, Ms. 49-VII-13, N°5a; forse si trattava infatti di Palazzo Magnani, visto che in quelli anni il palazzo di via di Campo Marzio veniva menzionato nei documenti come “Palazzo dei Signori Portoghesi”, e lí residievano José Correia de Abreu e José Jorge de Sequeira, i due responsabili dell’accademia.[]
  12. Cfr. BA, Ms. 49-VII-13, N°5a, N° 23, N° 42, N° 65, N° 67, N° 101, N° 114, N° 132, N° 136, N° 138, N° 229, N° 245, N° 258, N°275, N° 275b, N° 278, N° 278b, N° 278c, N° 301, N° 305, N° 324, N° 328, N° 331, N° 338, N° 342, N° 348a, N° 348b, N° 335, N° 359, N°363, N° 367, N° 370, N° 373, N° 380, N° 387, N° 403, N° 412, N° 420, N° 435.[]
  13. Cfr. BA, Ms. 49-VII-13, N°278.[]
  14. Inv. PNM 286, inv. PNM 296, inv. PNM 297, inv. PNM 361 e inv. PNM 183.[]
  15. Come conferma il seguente brano tratto da una lettera dal 2 agosto 1729: “Todos os ditos cálices serão dourados por dentro, e por fora, e por baixo dos pés; os quais terão diuerso feitio dos que Vossa Reverendissima mandou, porque alem de estes terem as copas feitas ao estilo Romano, e não segundo as regras de S. Carlos, tinhão os pês muito pequenos, que justamente se pode reçear que com facilidade volte um calix sobre o Altar, o que se beue obviar por todos os principios, e pera isto não he necessario faze-los demaziadamente grandes os pês, porque alem de pareçerem obra de Aldea, he desnecessario, e assim basta que sejão alguma couza majores daqueles que mandou Vossa Reverendissima. Tambem se deue aduertir que não sejão tão franzinos de prata, como ja notei a Vossa Reverendissima na minha ultima carta, e se deue procurar que esta noua Commissão seja feita com mais atenção pellos artefices, tanto em terem mais prata, que não fiquem tã franzinos, como em serem os mais pequenos da altura de 14 onças de passeto, com as copas do garbo e feitio do risco que mando a Vossa Reverendissima. Estes Calices terão um Lauor moderado, porem destinto dos 3 majores, e que deuem ser mais ricos.”, BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7 Doc. 8., f. 2v.[]
  16. C. Borromeo, Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae Libri II, (edizione di Stefano della Torre e Massimo Marinelli), Vaticano 2000 (1ª ed. 1577).[]
  17. «justamente se pode reçear que com facilidade volte um calix sobre o Altar, o que se deue obviar por todos os princípios», BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7 Doc. 8., f. 2v.[]
  18. «sem que o rilievo do Lavor possa molestar as mãos do Sacerdote quando nellas pegar», lettera di José Correia de Abreu per Fonseca Évora, 6 aprile 1734, BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, Mss. 41, Nº 7, Doc. 72, f. 1v.[]
  19. A. M. PEDROCCHI, Argenti Sacri nelle Chiese di Roma dal XV al XVIII Secolo, Roma 2010, p. 85.[]
  20. Su questa decorazione «alla cinese» nell’ambito della committenza portoghese di veda T. L. M. Vale, A decoração ‘alla cinese’: expressão de um gosto português no contexto do barroco romano, “Artis. Revista de História da Arte e Ciências do Património”, 2ª Série, Nº 1, 2013, pp. 96-101.[]
  21. Sugli Arrighi si veda: J. Montagu, Antonio Arrighi Silversmith and Bronze Founder in Baroque Rome, Todi 2009.[]
  22. Seppure estranei alla committenza portoghese ci sembra opportuno riferire che, databili degli successivi anni 30 e 40, sussistono tutt’oggi opere realizzate da Giovanni Paolo Zappati nelle chiese dei Cappuccini di Ascoli Piceno, di San Marcello al Corso e di Santa Caterina da Siena in via Giulia, in Roma e di Santa Maria delle Grazie a Faenza: rispettivamente, un reliquiario a ostensorio di San Serafino da Montegranaro, uno del Legno della Santa Croce datato 1737 e una lastra da Messale eseguita tra il 1749 e 1751 – cfr. A. Bulgari Calissoni, Maestri Argentieri, Gemmari e Orafi di Roma…, 1987, p. 446, G. Barucca, B, Montevecchi, Beni Artistici. Oreficeria, Milano 2006, p. 200 e G. Barucca, J. Montagu, Ori e Argenti. Capolavori del Settecento da Arrighi a Valadier, Milano 2007, p. 126.[]
  23. BA, Ms. 49-VII-33, f. 301: “unindo-se em tudo aos avizos, planta, e instrucção que V. Rma. Me remete”.[]
  24. Si veda Marie Thérèse Mandroux-França, Rome, Lisbonne, Rio de Janeiro, Londres et Paris: Le Long Voyage du Recueil Weale, 1745-1995, “Colóquio Artes”, N°109, 1996, pp. 5-22.[]
  25. Ove giunse come donazione dell’architetto Joseph-Michael Lesoufache, nel 1889. Collocazione attuale: Biblioteca della École Nationale Supérieure de Beaux-Arts, Parigi, ms. 497, pubblicato come From Rome to Lisbon. An album for the Magnanimous King, (a cura di T. L. M. Vale), Lisbona 2015.[]
  26. Sugli argenti romani per la Patriarcale si veda T L. M. Vale, Roman Baroque Silver for the Patriarchate of Lisbon, “The Burlington Magazine”, Vol. CLV, Nº 1.323,.2013, pp. 384-389 e su quelli della cappella di S. Giovanni Battista: T. L. M. Vale, Eighteenth-century Roman Silver for the chapel of St John the Baptist of the church of S. Roque, Lisbon, “The Burlington Magazine”, Vol. CLII, Nº 1.289, 2010, pp. 528-535 e T. L. M. Vale, A Ourivesaria. Do carácter único da coleção de ourivesaria da Capela de S. João Batista, in A Capela de S. João Batista da Igreja de S. Roque. A Encomenda, a Obra, as Coleções, (a cura di T. L. M. Vale), Lisbona 2015, pp. 199-247.[]
  27. Tem-se posto os 4 cancellos na Sta. Igreja Patriarcale em os Altares da Capella mor, Sacramento, Sacra Familia e Coreto, os quais vierão de Roma […].”, Biblioteca Pública de Évora, Cod. CIV/1-17.[]
  28. BA, Ms. 49-IX-33; cfr. anche BA, Ms. 49-VIII-29, Ms. 49-IX-22 e Ms. 49-IX-31.[]
  29. Si veda T. L. M. Vale, Ourivesaria Barroca Italiana em Portugal: presença e influência, Lisbona 2016, pp. 592-596 (Tabella 44) con riferimento a tutti i pagamenti fatti a Zappati.[]
  30. BA, Ms. 49-VIII-13, f. 288, un’esempio tra tanti.[]
  31. Biblioteca della École Nationale Supérieure de Beaux-Arts, Parigi, ms. 497, f. 297, pubblicato come From Rome to Lisbon. An album for the Magnanimous King…, 2015.[]
  32. BA, Ms. 49-VIII-18, f. 229.[]
  33. Forse un errore nel rifferirsi a Paolo Zappati (che cosí viene spesso chiamato neidocuementi) o Pietro ha ricevuto questa somma al nome di suo padre, com’é anche successo con qualche altro pagamento.[]
  34. BA, Ms. 49-VIII-16, f. 30.[]
  35. Cfr. P. Maglione, Sant’Antonio dei Portoghesi in Roma, Roma 1931, p. 43, e S. Vasco Rocca, Giovanni Paolo Zappati (1691-1758). Repositorio, in Giovanni V di Portogallo e la Cultura Romana del Suo Tempo…, p. 464 e A. P. Cardoso, A Presença Portuguesa em Roma, Lisbona 2001, p. 136.[]
  36. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi in Roma / A Colecção de Prataria Sacra da Igreja de Santo António dos Portugueses em Roma, Roma 2014.[]
  37. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014, Appendice documentaria, Doc. 5.[]
  38. AIPSAR, Filza 9, 1745-1746 (senza titolo), Doc. 56.[]
  39. AIPSAR, Filza 9, 1745-1746 (senza titolo), Doc. 56. []
  40. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014, Appendice documentaria, Doc. 6.[]
  41. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014, Appendice documentaria, Doc. 7.[]
  42. Si veda T. L. M. Vale, Ourivesaria Barroca Italiana em Portugal…, 2016., pp. 592-596 (Tabella 44).[]
  43. Archivio di Stato di Roma, Ospizi, SS.Trinità dei Pellegrini, busta n° 228.9, f. 51v., pubbl. da J. Montagu, Antonio Arrighi, a silversmith and bronze founder in baroque Rome…, 2009, p. 200.[]
  44. Cfr. “Due appunti sugli argenti romani del Settecento”, in Studi sul Settecento Romano. Palazzi, chiese, arredi e scultura I, (a cura di E. Debenedetti), Roma 2011, pp. 217-227.[]
  45. Su questi oggetti si veda T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014., pp. 34-35.[]
  46. Filippo Passarini, Nuove Inventioni d’Ornamenti d’Archietettura e d’Intagli Diversi Utili ad Argentieri Intagliatori Riccamatori et Altri Professori delle Buone Arti del Disegno, Roma 1698, f. 9 e Giovanni Giardini, Promptuarium Artis Argentariae: ex quo, centum exquisito studio inventis, delineatis, ac in aere incisis tabulis propositis, elegantissimae, ac innumerae educi possunt novissimae ideae ad cujuscumque generis vasa argentea, ac aurea invenienda, ac conficienda. Opus non modo artis tyronibus, verum etiam provectis magistris sane per utile invenit, ac delineavit Joannes Gierdini ac in duas partes distribuit, Roma 1759, ff. 19 e 20.[]
  47. Inv. A.s.E. 1911 n. 78.[]
  48. 62cm di altezza, l’urna della chiesa dei Portoghesi ha 89 cm di altezza; per l’Urna del Santissimo del Museo degli Argenti di Firenze, si veda Marilena Mosco, Ornella Casazza, Il Museo degli Argenti, Collezioni e Collezionisti, Firenze 2007, pp.156-157.[]
  49. “O Padre Tambini mandou aqui enculcar um Escultor, que chamão Massimiliano Soldani Benzi; V. Rma. Se informe da sua Capacidade, e achando ser Professor capas de dar boa satisfação de si, se servirá delle.”, BNP, Secção de Reservados, Fundo Geral, mss. 41, N° 7, Doc. 21, f. 6v., pubbl. da T. L. M. Vale, A escultura Italiana em Mafra, Lisbona 2002, pp. 128-132.[]
  50. Sull’attività di Ludwig a Roma e in Portogallo si veda T. L. M. Vale, Ourivesaria Barroca Italiana em Portugal…, 2016, pp. 279-303.[]
  51. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014, Appendice documentaria, Doc. 4.[]
  52. T. L. M. Vale, La Collezione di Argenti Sacri …, 2014, Appendice documentaria, Doc. 5.[]
  53. Si veda T. L. M. Vale, Da forma e da preciosidade da palavra. A presença de sacras barrocas italianas na celebração religiosa do Portugal de Setecentos, in Actas do III Colóquio Português de Ourivesaria, (a cura di G. V. Sousa), Porto 2012, pp. 81-97 e T. L. M. Vale, Para o rei e não só. Obras dos Zappati, ourives do Settecento romano, em Portugal…, 2015, pp. 96-97; sulle cartegloria si veda anche: M. H. Z. Cabeças, ‘Com suas figuras de relevado mil vezes bem feytas’, “Invenire. Revista de Bens Culturais da Igreja”, Nº 11, 2015, pp. 40-45 e M. H. Z. Cabeças, O Triunfo do Barroco. Talha, escultura de madeira e ourivesaria de prata da igreja da Ordem Terceira de São Francisco de Elvas na primeira metade do século XVIII, “ARTis On”, Nº 1, 2015, pp. 96-98.[]
  54. E non i 120a e 120b – si veda C. Bulgari, Argentieri, Gemmari e Orafi d’Italia…, 1958-1959 e A. Bulgari Calissoni, Maestri Argentieri, Gemmari e Orafi di Roma…, 1987.[]
  55. Arquivo da Ordem Terceira de S. Francisco, Elvas (d’ora in poi AOTSFE), Livro de Despesa, Livro 176, f. 20. Ringrazio il Dott. Nuno Gancho per l’indicazione dei documenti degli archivi di Elvas.[]
  56. “Despendeu o N. Ir. Sindico vinte e quatro mil reis, que a Meza mandou dar de luvas ao Agente da companhia de Jezus o R. Padre Francisco Gomes asistente en Roma por mam do R. Padre Henrique da Silva, pelo trabalho que teve com a encomenda, que se lhe fes das Sacras de prata que se acham em nossa casa”, AOTSFE, Livro de Despesa, Livro 176, f. 28; le cartegloria compaino poi negli inventari successivi: AOTSFE, Livro do Inventário dos Bens da Ordem, Nº 45, 1765, f. 28 e Livro do Inventário da Venerável Ordem 3ª de S. Francisco da Cidade de Elvas, 1837, f. 26.[]
  57. AOTSFE, Memórias e Princípios da Nossa Venerável Ordem Terceira de São Francisco de Elvas, ff. 33-34; si veda anche Arquivo Histórico Municipal de Elvas, Outros Documentos, Memórias para a História de Elvas (Legado de Luiz F. A. Nunes), Mss. V/ 113, f. 87v.[]
  58. Questo membro e benefattore del Terzo Ordine Francescano di Elvas è sepolto (assieme alla moglie) nella chiesa e l’epitaffio fa riferimento alla sua generosità; su di lui si veda Pe. Fr. J. de Belém, Chronica Seráfica da Santa Provincia dos Algarves da Regular Observancia de Nosso Serafico padre S. Francisco…, Parte IV, Lisbona 1758, pp. 467-468.[]
  59. Sul collegio si veda A. J. T. C., A Companhia de Jesus em Elvas. Notas para a História do Collegio de S. Thiago, Elvas 1931, L. Keil, Inventário Artístico de Portugal. Distrito de Portalegre, Lisbona 1943, F. Rodrigues, História da Companhia de Jesus na Assistência de Portugal, Tomo 3, Vol. 1, Porto 1944, L. B. Guerra, Colégios de Lisboa, Setúbal, Santarém, Évora e Elva- Companhia de Jesus: Arquivo do Tribunal de Contas, Lisbona 1972, R. Lobo, O colégio jesuíta de Santiago, em Elvas, “Monumentos”, Nº 28 (2008), pp. 120-127 e I. G. Pinho, M. J. Coutinho, O Colégio Jesuíta de São Tiago de Elvas: construção, materiais e intervenientes, “Construir Património”, Nº 40, 2022, pp. 29-48.[]